Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre.
Sta in queste poche righe l'essenza del romanzo, La più amata, un libro fortemente autobiografico nel quale la scrittrice Teresa ripercorre la sua infanzia, dominata dalla figura del padre, il Professor Ciabatti, primario di chirurgia dell'ospedale di Orbetello.
Ma chi era veramente Lorenzo Ciabatti?
Un luminare, un benefattore come lo ricorda la gente? O un uomo freddo e calcolatore, un massone?
Teresa Ciabatti scava nel suo passato, assemblando i ricordi come pezzi incompleti di un puzzle fino a delineare un quadro familiare atipico: un padre ingombrante amatissimo ma distante, una madre, Francesca Fabiani, fragile e incapace di tenere testa al marito, un fratello gemello, quasi inconsistente.
Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento.La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista: la cocca del babbo, la capricciosa bambina che nuota nella piscina della villa hollywoodiana al Pozzarello, la principessa del reparto che si fa viziare dai giovani medici ansiosi di mettersi in mostra. Una piccola diva prepotente per la quale il mondo non è mai abbastanza.
Fino almeno al compimento dei suoi dieci anni: ingrassa, imbruttisce, i genitori si separano, si trasferisce a Roma con la madre. Non è più l'invidiata figlia del Professore, svaniti i sogni di celebrità e gli scenari da film. Svanita anche l'enorme ricchezza dei Ciabatti, come inghiottita da un mostro mitologico.
Mi dispiace, Professore, tua figlia fa quello che vuole lei, non quello che dici tu. L’unica al mondo a non fare quello che dici tu.
Dal presente, una Teresa presuntuosa e sprezzante, madre anaffettiva che delega le cure della figlia alla tata moldava, si interroga sulla sua incapacità di amare, sul suo essere, a quarantaquattro anni, una donna incompiuta e incapace. Di non meritare il successo che ha avuto.
Non sono d'accordo.
La più amata è sicuramente un libro che divide, che fa discutere, che colpisce o delude. Un libro sulla famiglia, sulle crepe che ci lascia, su come la vita sia una continua altalena tra illusione e disillusione. Un modo di scrivere spietato e aspro, al limite dello spiacevole, che gli è valso la candidatura come finalista al Premio Strega.
I critici l'hanno catalogato come autofiction, termine utilizzato per definire alcuni romanzi a metà appunto fra autobiografia e finzione, fra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e loro palese distorsione romanzesca.
Il lettore è spiazzato: non sa dove inizi la realtà e finisca la storia, nel dipanarsi di questo racconto scomodo che travalica il privato, tratteggiando un'Italia corrotta e corruttibile, affascinante e marcia allo stesso tempo.
Se il personaggio di Teresa Ciabatti sia piacevole o no, alla fine poco importa. Perché anche se snob, arrogante, cattiva con gli altri, e soprattutto con sé stessa, è stata capace di dare alla luce un libro coraggioso, capace di sfidare il timore del giudizio altrui senza alcuna remora.
Indicazioni terapeutiche: per chi è inclemente con sé stesso.
Effetti collaterali: in un'intervista l'autrice ha dichiarato: "Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire."
Forse diventare adulti significa soprattutto questo. Smettere di cercare un colpevole. Perdonare i propri genitori per non essere stati quello di cui avevamo bisogno. Perdonarsi per non essere stati abbastanza.
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