La storia è di pubblico dominio: il 28 gennaio 2011 Mathias Schepp va a prendere le figlie Alessia e Livia, due gemelle di 6 anni, a casa di amici, subito dopo prende un traghetto per la Corsica e pochi giorni dopo, il 3 febbraio raggiunge Cerignola in Puglia, dove si fa investire da un treno.
Delle bambine non si sono più avute tracce. Unico indizio un messaggio del padre: "Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più."
Sgonfiato il circo della cronaca nera, a distanza di anni, di questa tragedia non resta che una donna, Irina Lucidi, che ha dovuto imparare di nuovo vivere, perché, come dice il libro, il dolore da solo non uccide. Tornare ad essere felice, malgrado le persone, che criticano, che giudicano, che non accettano che si ribelli alla terribile sorte che le è toccata. Che credono che Irina si debba vergognare di aver dimenticato le sue bambine.
Dimenticare?
Come se fosse possibile. Come fosse possibile dimenticare di avere un braccio, una gamba, un cuore. Alessia e Livia non se sono mai andate e mai lo faranno. Niente si dimentica ma tutto, a momenti, si deve prendere e mettere in un posto.
Come fosse possibile arrendersi all'idea che magari siano vive, che siano felici, anche se altrove. Imparare a vivere con la loro assenza, che è più forte di qualsiasi presenza.
La missione di Irina è questa: vivere per mantenere vivo il loro ricordo. Per questo ha lasciato il suo lavoro e ha fondato Missing Children Switzerland, un'organizzazione no profit che offre sostegno a livello psicologico, sociale e giuridico alle famiglie e ai congiunti vittime di una scomparsa di minore.
Come fosse possibile arrendersi all'idea che magari siano vive, che siano felici, anche se altrove. Imparare a vivere con la loro assenza, che è più forte di qualsiasi presenza.
La missione di Irina è questa: vivere per mantenere vivo il loro ricordo. Per questo ha lasciato il suo lavoro e ha fondato Missing Children Switzerland, un'organizzazione no profit che offre sostegno a livello psicologico, sociale e giuridico alle famiglie e ai congiunti vittime di una scomparsa di minore.
L’attesa delle persone amate non è una pausa: è un lavoro incessante, una fatica mostruosa, una lotta contro i peggiori dei pensieri. È uno spazio che si riempie di mostri.
Questo libro nasce dal sodalizio di Irina con la giornalista Concita de Gregorio, ma non è un'inchiesta, bensì un'opera letteraria, che cerca di rimettere insieme ciò che era andato in pezzi. Un libro frutto dalla volontà di elaborare un trauma e di affrontarlo attraverso la scrittura, la forza di dire "ho bisogno di mettere fuori di me questo oggetto rotto".
La letteratura come cura, come strumento di riappacificazione col mondo.
Racconta in prima persona, attraverso lettere e riflessioni personali, il viaggio di "ricostruzione" della protagonista. Come è stata costretta ad imparare a convivere con i sensi di colpa, con la consapevolezza di non aver intuito il pericolo, con il pregiudizio che l'ha investita, lei Irina, italiana, avvocato di successo, vittima del razzismo e del sessismo nella moderna e civile Svizzera. Come è riuscita a convivere con i buchi nelle indagini, le approssimazioni, l'ostracismo, vittima due volte, di un folle e di un sistema, che non ha saputo proteggere né lei, né le sue figlie.
Eppure non è un libro pieno di rancore o dolore. Al contrario è un romanzo sulla speranza, sull'amore, un romanzo che ci insegna come si sopravvive all'assenza.
Mi sono chiesta, leggendo, come abbia fatto Irina a sopravvivere, come sia riuscita a non soccombere. Alla fine ho capito. È sopravvissuta perché non si è chiusa nella sua sofferenza, perché non ha rinunciato all'amore, perché sogna balene felici e quando si sveglia piange dalla gioia. Perché non si è arresa alla disperazione, ma se l'è fatta amica, compagna, le si è seduta accanto ed ha trovato la pace.
Indicazioni terapeutiche: per chi rifiuta di arrendersi al suo dolore.
Effetti collaterali: Le parole a volte si ingolfano, altre si consumano. Altre volte ancora arrivano in ritardo e non servono più a dire quel che volevano. Le parole sono importanti. Sono come pietre, e come tali bisogna usarle. A volte mancano. C'è una parola per chi perde un genitore, orfano. E una per chi perde un partner, vedovo. Ma non c'è un parola per chi perde un figlio. Non c'è una parola capace di circoscrivere un lutto così devastante.
La letteratura come cura, come strumento di riappacificazione col mondo.
Vorrei che mi aiutassi, se puoi, a prendere le parole metterle in fila ricomporre tutti i pezzi che sento frantumati e dispersi in ogni angolo del corpo. Vorrei ricostruire i frammenti come si ripara un oggetto rotto, prenderlo in mano e portarlo fuori da me. Per tenerlo accanto, portarlo in tasca, metterlo in borsa ma intero, tutto intero.
Racconta in prima persona, attraverso lettere e riflessioni personali, il viaggio di "ricostruzione" della protagonista. Come è stata costretta ad imparare a convivere con i sensi di colpa, con la consapevolezza di non aver intuito il pericolo, con il pregiudizio che l'ha investita, lei Irina, italiana, avvocato di successo, vittima del razzismo e del sessismo nella moderna e civile Svizzera. Come è riuscita a convivere con i buchi nelle indagini, le approssimazioni, l'ostracismo, vittima due volte, di un folle e di un sistema, che non ha saputo proteggere né lei, né le sue figlie.
Eppure non è un libro pieno di rancore o dolore. Al contrario è un romanzo sulla speranza, sull'amore, un romanzo che ci insegna come si sopravvive all'assenza.
Mi sono chiesta, leggendo, come abbia fatto Irina a sopravvivere, come sia riuscita a non soccombere. Alla fine ho capito. È sopravvissuta perché non si è chiusa nella sua sofferenza, perché non ha rinunciato all'amore, perché sogna balene felici e quando si sveglia piange dalla gioia. Perché non si è arresa alla disperazione, ma se l'è fatta amica, compagna, le si è seduta accanto ed ha trovato la pace.
Indicazioni terapeutiche: per chi rifiuta di arrendersi al suo dolore.
Effetti collaterali: Le parole a volte si ingolfano, altre si consumano. Altre volte ancora arrivano in ritardo e non servono più a dire quel che volevano. Le parole sono importanti. Sono come pietre, e come tali bisogna usarle. A volte mancano. C'è una parola per chi perde un genitore, orfano. E una per chi perde un partner, vedovo. Ma non c'è un parola per chi perde un figlio. Non c'è una parola capace di circoscrivere un lutto così devastante.