A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà. E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.
La prima vita di Barbara finisce il 3 agosto 1981 a Arma di Taggia. Una corsa tra le onde, un tuffo, un rumore di ossa spezzate, un incendio che invade il corpo, immobile, che galleggia a pancia in giù a pelo d'acqua.
Come accade spesso, in un solo attimo ogni cosa è cambiata per sempre. Barbara rimarrà tetraplegica, incatenata per il resto della sua vita ad una sedia a rotelle.
Alzarsi dal letto, correre, preparare un arrosto , indossare i tacchi, salire o scendere le scale, accendersi una sigaretta, farsi un bidet, stringere un mano, ballare, raccogliere dei fiori. L'elenco delle cose che non potrà più fare da sola sembra estendersi fino allo sfinimento.
Ma Barbara è molto di più di una lista di "no", è una lottatrice, una "disabilitata" che ha lottato per riguadagnare ogni centimetro di indipendenza, che si è laureata ed è diventata scrittrice, che ha saputo affidarsi all'immaginazione per non rimanere sdraiata in un letto a fissare un soffitto bianco.
Ma non è sufficiente.
Vuole di più. Essere l'amica confidente, la letterata di successo, la donna risoluta e coraggiosa che tutti ammirano non le basta.
Barbara vuole godere e far godere.
Vuole il sesso, la passione, l'eccitazione, l'amore.
Non volevo morire vergine è il racconto autobiografico in cui l'autrice, Barbara Garlaschelli, si mette a nudo e ripercorre, con voce intima, il lungo percorso di riscoperta della propria auto-consapevolezza: la voglia di piacere, di vivere a pieno, senza barriere né limitazioni, la propria femminilità e sessualità, lottando contro i tabù che persistono nella nostra società, in cui i disabili sono percepiti come creature asessuate, quasi angeliche, che suscitano affetto e comprensione, senza comprendere che in realtà, hanno “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni”.
Un cammino durato trent'anni costellato di delusioni, frustrazioni, umiliazioni, in cui la scrittrice affronta la sua paura più grande, quella di essere rifiutata, un timore che appartiene a tutti, uomini e donne "normodotati", ma che nei "disabilitati" diventa un terrore assoluto in grado di soverchiare l'intera esistenza.
Con una buona dose di ironia e cinismo, la protagonista narra i suoi primi approcci, i baci impacciati, gli appuntamenti imbarazzanti, le farfalle nello stomaco, in una girandola di figure maschili, a volte attente e premurose, a volte patetiche e meschine, sempre protetta dalla rete di sicurezza costituita da Renzo e Franca, i suoi straordinari genitori.
Perché, in fondo, la più importante delle conquiste è quella di poter mostrare le proprie insicurezze, senza paura che gli altri le usino come un'arma contro di noi.
Indicazioni terapeutiche: per chi non crede che il dolore renda persone migliori; per chi sa che ognuno di noi è, a suo modo, fragile.
Effetti collaterali: La verginità di cui la protagonista si vuole liberare non è da intendersi ovviamente in senso strettamente "anatomico", ma riflette la sua volontà di mettersi in gioco, di vivere a pieno, a prescindere dalla propria "corporeità", ogni esperienza, viaggio, delusione, gioia, giornata di sole, viaggio, emozione, sbaglio, successo, fallimento. La voglia di normalità, che poi altro non è che il desiderio imprescindibile di essere accettati e amati.
La prima vita di Barbara finisce il 3 agosto 1981 a Arma di Taggia. Una corsa tra le onde, un tuffo, un rumore di ossa spezzate, un incendio che invade il corpo, immobile, che galleggia a pancia in giù a pelo d'acqua.
Come accade spesso, in un solo attimo ogni cosa è cambiata per sempre. Barbara rimarrà tetraplegica, incatenata per il resto della sua vita ad una sedia a rotelle.
Alzarsi dal letto, correre, preparare un arrosto , indossare i tacchi, salire o scendere le scale, accendersi una sigaretta, farsi un bidet, stringere un mano, ballare, raccogliere dei fiori. L'elenco delle cose che non potrà più fare da sola sembra estendersi fino allo sfinimento.
Nessuno può sapere il dolore che provo, e non perché non tentino di capire ma perché è impossibile. Nemmeno io immaginavo che potesse esistere un dolore così. Del corpo e della mente. Un dolore che si impasta di una paura che non comprendo.
Ma Barbara è molto di più di una lista di "no", è una lottatrice, una "disabilitata" che ha lottato per riguadagnare ogni centimetro di indipendenza, che si è laureata ed è diventata scrittrice, che ha saputo affidarsi all'immaginazione per non rimanere sdraiata in un letto a fissare un soffitto bianco.
Ma non è sufficiente.
Vuole di più. Essere l'amica confidente, la letterata di successo, la donna risoluta e coraggiosa che tutti ammirano non le basta.
Barbara vuole godere e far godere.
Vuole il sesso, la passione, l'eccitazione, l'amore.
Il corpo è il biglietto da visita con cui ci presentiamo al mondo. Nessuno sa cosa si celi dentro di noi, ma tutti vedono siamo, anche se ognuno ci vede a modo suo (bella, brutta, interessante, carina, insignificante, fascinosa). Ci palesiamo al mondo con il nostro corpo.
Non volevo morire vergine è il racconto autobiografico in cui l'autrice, Barbara Garlaschelli, si mette a nudo e ripercorre, con voce intima, il lungo percorso di riscoperta della propria auto-consapevolezza: la voglia di piacere, di vivere a pieno, senza barriere né limitazioni, la propria femminilità e sessualità, lottando contro i tabù che persistono nella nostra società, in cui i disabili sono percepiti come creature asessuate, quasi angeliche, che suscitano affetto e comprensione, senza comprendere che in realtà, hanno “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni”.
Un cammino durato trent'anni costellato di delusioni, frustrazioni, umiliazioni, in cui la scrittrice affronta la sua paura più grande, quella di essere rifiutata, un timore che appartiene a tutti, uomini e donne "normodotati", ma che nei "disabilitati" diventa un terrore assoluto in grado di soverchiare l'intera esistenza.
Con una buona dose di ironia e cinismo, la protagonista narra i suoi primi approcci, i baci impacciati, gli appuntamenti imbarazzanti, le farfalle nello stomaco, in una girandola di figure maschili, a volte attente e premurose, a volte patetiche e meschine, sempre protetta dalla rete di sicurezza costituita da Renzo e Franca, i suoi straordinari genitori.
Niente dovrebbe restare vergine. Nessuna vita, nessuna pagina bianca, nessun pensiero nessun luogo. Forse qualche isola immaginaria per poter far rinascere le nostre emozioni e amarle e riamarle. Niente dovrebbe restare immacolato, neanche la neve, sulla quale le tracce di animali, foglie cadute, passi di uomini e donne, raccontano della vita. Niente dovrebbe restare vergine, né il corpo né la mente, che racchiudono in sé la traboccante vitalità di ciò che siamo.Quella di Barbara Garlaschelli è la testimonianza di una donna libera che ha vissuto e combattuto, e non deve più dimostrare, sopratutto a sé stessa, di essere forte. Una donna finalmente integra, non più divisa tra l'accettarsi o il rifiutarsi: Oggi posso e voglio piangere le mie lacrime, la mia fragilità, l’immenso dolore per tutto ciò che ho perso.
Perché, in fondo, la più importante delle conquiste è quella di poter mostrare le proprie insicurezze, senza paura che gli altri le usino come un'arma contro di noi.
Indicazioni terapeutiche: per chi non crede che il dolore renda persone migliori; per chi sa che ognuno di noi è, a suo modo, fragile.
Effetti collaterali: La verginità di cui la protagonista si vuole liberare non è da intendersi ovviamente in senso strettamente "anatomico", ma riflette la sua volontà di mettersi in gioco, di vivere a pieno, a prescindere dalla propria "corporeità", ogni esperienza, viaggio, delusione, gioia, giornata di sole, viaggio, emozione, sbaglio, successo, fallimento. La voglia di normalità, che poi altro non è che il desiderio imprescindibile di essere accettati e amati.