martedì 26 settembre 2017

Il mare dove non si tocca di Fabio Genovesi

Mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa. Ho letto tutti i libri di Fabio Genovesi e non posso che patteggiare per lui. Per il modo in cui mischia, in maniera sempre nuova e sorprendente, ironia e malinconia. Per come descrive una terra, la sua, che poi è anche la mia, che, se non ne fossi già ammaliato, te ne innamoreresti all'istante. Perché è uno scrittore di successo ma ai salotti milanesi preferisce Forte dei Marmi, non quella glamour però. Quella nuvolosa e deserta, quella che rimane quando i turisti  tornano a casa, con la valigia piena di ricordi delle serate estive e dei mirabolanti fuochi di Sant'Ermete, ma noi restiamo qui. E magari lo incontri sul pontile a parlare di muggini coi pescatori.
Eppure il suo libro precedente, Chi manda le onde, non mi era piaciuto e ve lo avevo confessato nella mia recensione ( leggi qui ) . Mi ero sentita quasi tradita nelle mie aspettative.
E poi il romanzo vinse il Premio Strega Giovani 2015.
E mi sono sentita un po' così. In colpa. Come se non avessi capito tutto quello che c'era da capire. Così il 5 settembre quando è uscito Il mare dove non si tocca sono corsa ad acquistarlo. E per una strana legge del contrappasso, premio o no, questa volta quest'ultimo romanzo mi è entrato sotto pelle subito, come un sapore di buono che ti resta in bocca per ore e nella mente per giorni.

La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto. 


Il mare dove non si tocca è la storia di Fabio, un ragazzino che abita in un paesino di provincia, e della sua strampalata famiglia: il babbo aggiusta-tutto che assomiglia a Little Tony, la nonna che apparecchia sempre anche per il nonno che non c'è più e loro, i nonni o meglio, gli zii.  Aldo, Aramis, Adelmo, Arno, Athos, sui quali grava una terribile maledizione, che li condanna a diventare matti, se non si sposano entro i quaranta anni. Rumorosi e polemici, impetuosi e rissosi, capaci di catturare qualsiasi animale che corra, voli o nuoti,  rappresentano la quintessenza dell'eccentricità. Ma d'altronde in Versilia siamo fatti così: ci piace esaltare la stranezza, sopratutto la stranezza della vecchiaia.

Il Villaggio Mancini è  un po' villaggio del Far West, un po' Macondo, con un chiaro rimando al realismo magico di Marquez. Non c'è contraddizione: come ha affermato lo scrittore fortemarmino durante una sua presentazione "Il realismo magico è l'unico realismo autentico, perché se si pensa che la realtà sia la fila alle poste, le notti insonni, ... Quella non è la realtà. Quella è solo la crosta della realtà."

Perché il pesce tuo non te lo prende nessuno. Nuota strano, nuota a caso, ma eccolo che arriva a te.

Il piccolo Fabio cresce, senza perdere il suo sguardo disincantato, tra gare di presepi e coccinelle, tra gite ai monti col parroco e funghi scintillanti,  tra la solitudine e la paura di non essere abbastanza simile agli altri. Se c'è una lezione che il protagonista impara è che non puoi prepararti. Che la vita ti rovescia addosso comunque tutto, come il lavarone che il mare butta sulla spiaggia. Non importa quanto preghi, quanto ti impegni ad essere bravo, non conta nulla. Tanto vale inseguire quello che ami, che tanto il dolore ti cade addosso lo stesso e non c'è verso di scansarlo.
Il mare dove non si tocca è così. Si ride, ci si commuove, si ride ancora. Si legge la storia di Fabio e vi si riconosce la propria, in una sorta di riflesso cangiante, di piccolo sussulto che riporta ognuno di di noi alla propria infanzia, un luogo abitato di ricordi, mostri e sogni infranti.

...io lì per lì quest'anima non me la sapevo immaginare, poi però l'ho capito che l'anima di ogni persona è proprio questa qua: è la sua storia da raccontare, e più è bella più vola fra le bocche e le orecchie e dura nel tempo. Il tuo corpo finisce in una cassa, ma la tua storia viaggia per il mondo, viaggia per sempre.

Fabio Genovesi ci racconta la sua storia, come è stata ma soprattutto come sarebbe potuta essere, cosicché il lettore non sa mai dove finisce la realtà e dove inizia la finzione narrativa.
Il valore aggiunto di questo romanzo sta proprio nell'universalità del suo significato intrinseco: Fabio cresce a Vittoria Apuana ma il libro sarebbe potuto essere ambientato benissimo in un un paesino in Brasile o in Turchia. Se c'è una cosa che vale per tutti è propria questa: casa tua, il posto dove sei nato, è  diverso e uguale per tutti. Allora raccontare la provincia per Genovesi diventa un modo per dare vita ad un grande racconto epico, su modello della grande narrativa americana, una sorta di "mitologia dei posti". L'autore parla dei posti degli altri parlando del suo e così facendo compie la magia: accende il calore e l'amore che ognuno ha per il suo pezzo di mondo, quello spicchio dell'universo che è solo nostro,  ma che, paradossalmente, condividiamo con il resto dell'umanità.

Indicazioni terapeutiche: per chi è rimasto bambino, per chi ha paura del mare aperto ma si tuffa lo stesso, per chi non perde la speranza.


Effetti collaterali: Non sempre ciò che ci allontana dalla strada comune, che ci fa essere dissimili dalla moltitudine è un male.  Anche la solitudine può essere un valore, se ci spinge fuori dalla nostra rete di sicurezza, dove niente è sicuro o conosciuto, ma dove sono nascoste anche infinite possibilità, come tesori sepolti in fondo al mare. Solo dove non si tocca si nuota davvero.



lunedì 11 settembre 2017

Chirù di Michela Murgia

Michela Murgia è balzata alla cronache per le sue stroncature nel corso del programma Quante storie su RAI3, in perenne bilico tra ironia e cattiveria al vetriolo. Non sarà simpatica, ma non si può metterne in dubbio l'intelligenza e l'acume. Eleonora, la protagonista del romanzo Chirù, le assomiglia. Una donna forte, colta, anche lei figlia della sua amata Sardegna.
Eleonora è un'attrice di teatro, alle soglie dei quarant'anni, animata da una speciale vocazione, quella di prendere sotto la sua "ala" giovani talenti acerbi, di mostrare loro la via per il successo, in una sorta di apprendistato sui generis, dove nulla si insegna ma qualcosa si impara sempre.


Vorrei poter dire che quella tra noi fu un'immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirù lo riconobbi dall'odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell'odore era lo stesso mio.

L'allievo prescelto è lui, Chirù. Scanzonato allievo di violino al Conservatorio che sogna un futuro da grande artista, alla bramosa ricerca di una guida.
Li separano venti anni e una diversa consapevolezza: da una parte la "maestra" che forte del proprio fascino e della propria esperienza gode della propria posizione privilegiata, nutrendosi dell'ammirazione e dell'ingenuità del giovane ammiratore, dall'altra l'ambizione di un ragazzo disposto ad assorbire ogni insegnamento, a farsi plasmare, a diventare altro, pur di avere l'occasione della vita.


Della sua fragilità in quell'istante amai proprio quello che dell’amore si paga piú caro: l’assenza di calcolo e di misura che appartiene solo alle cose nate libere. 

Un rapporto che travalica i ruoli mentore-allievo per sconfinare nel desiderio, ma non di certo nell'amore. Non c'è nessuna affinità elettiva ma un riconoscersi, una volontà di appagamento che assomiglia più al controllo che non alla generosità. Eleonora non si compiace forse della debolezza e della fragilità di Chirù ? Non cadrà, suo malgrado, ella stessa vittima della sua incapacità di comprendere che è destinata ad essere travolta dai suoi stessi insegnamenti?
Chirù non è un libro sui sentimenti ma sul potere e sulle relazioni, o meglio sul potere nelle relazioni. Che lo si ammetta o meno è sempre presente una tensione all'interno di un rapporto, un gioco di ruoli destinato a decretare un solo vincitore. Forse anche per questo la storia vira in direzione del'iper-soggettivismo: ogni emozione, ricordo, avvenimento è filtrato attraverso  gli occhi della protagonista femminile, mentre tutti gli altri personaggi, quasi prettamente maschili, appaiono evanescenti, diafane figure sullo sfondo.

Ho coltivato una speciale diffidenza per chi si compiace di dire sempre quello che pensa. Temo con ogni fibra quel tipo di persona che è pronta a scambiare per pensiero il moto casuale di tutto quello che gli passa per la testa e chiama sincerità l’incapacità di controllarlo.

La Murgia è una maestra di stile, tagliente, puntuale e barocca al tempo stesso. Una che, importa poco cosa scriva, si percepisce che ha qualcosa da dire. Questo romanzo, a fronte di una storia disadorna e a tratti sconnessa, mi ha colpito per i dialoghi intensi, per i non detti che pesano più che mille parole. Un libro che, anche se  a tratti sembra perdersi, regala in ogni caso un'esperienza appagante.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede che ogni legame implichi una forzatura della propria natura.

Effetti collaterali: L'Eleonora del presente, affascinante e sicura di sé, ha un legame profondo con la bambina che è stata, una figlia oppressa da un padre prevaricatore e una madre debole che la colpevolizzava invece di proteggerla. Il bisogno di avere il controllo, di trovare un sostituto ad un figlio mai avuto, affonda le radici lì. Nel bisogno di riaffermare una femminilità troppo a lungo negata, di essere padrona non solo della sua vita, ma anche artefice del destino altrui.