Come si suol dire non c'è due senza tre. Non avevo ancora chiuso l'ultima pagina de Il gioco dell'angelo che mi sono gettata nelle atmosfere de Il prigioniero del cielo, impaziente di ritrovare Daniel, Fermin, David, i personaggi a cui mi sono affezionata.
Sarò sincera mi aspettavo che questo romanzo rispondesse a tutte i quesiti sollevati nei primi dalla penna di Zafon. Missione compiuta?
In parte.
Possiamo dire che questo terzo capitolo si configura come un libro di raccordo, che tira la fila degli eventi già raccontati, mettendo in luce collegamenti che erano rimasti nascosti, e al, tempo stesso, getta le basi per il quarto capitolo, Il Labirinto degli Spiriti.
Un buon bugiardo sa che la menzogna più efficace è sempre una verità a cui è stato sottratto un elemento fondamentale.
Torniamo di nuova a Barcellona, questa volta nel 1957. Daniel Sempere è ormai adulto: si è sposato con Bea e lavora nella libreria di famiglia. Sembrano ormai dimenticati le inquietudini della giovinezza, quando inseguiva il fantasma di Julian Carax.
Una mattina, mentre si trova da solo, entra nella libreria un uomo piuttosto strano per acquistare una rara copia del Conte di Montecristo come regalo per Fermin, con tanto di dedica sibillina: “A Fermin Romero de Torres, che è tornato dal mondo dei morti e possiede la chiave del futuro. Firmato 13”.
Scosso da questo incontro per nulla piacevole e preoccupato per l'evidente stato di ansia dell'amico, Daniel chiede a Fermin cosa lo turbi. Il suo racconto aprirà una porta sul doloroso passato che è tornato a tormentarlo.
Attraverso un flash back, torniamo quindi indietro di venti anni, scoprendo in tal modo l'intera storia di Fermìn, cos'è successo davvero a Isabella, la madre di Daniel, e che fine ha fatto David Martìn.
- Le fa ancora male?
- A volte.
- Le cicatrici non se ne vanno mai, non è vero?
- Vanno e vengono, credo.
Il prigioniero del cielo ruota indiscutibilmente intorno al personaggio di Fermin, che attraverso i suoi ricordi ci trascina dentro gli orrori della Spagna franchista, la false accuse, la prigione, le torture e l'ascesa di personaggi viscidi e senza scrupoli, come Mauricio Valls, direttore del carcere di Montjuïc.
È lui, la spia ironica e sagace, il buono della storia, l'unico che resta sempre fedele a sé stesso e ai suoi valori, la lealtà e l'amicizia. Nonostante le sofferenze subite, in lui è rimasta una luce, capace di scaldare chi lo circonda. Se Andreas Corelli è il Diavolo tentatore, Fermin, in chiave antitetica, simboleggia l'angelo custode, colui che dall'ombra si prende cura dei suoi protetti.
Il futuro non si desidera, si merita.
Zafon ci consegna un libro, certamente meno articolato ( e purtroppo anche meno corposo) dei precedenti, che ruba spazio all'azione per dedicarsi maggiormente alla dimensione affettiva e introspettiva dei personaggi. L'animo umano si configura come un campo di battaglia tra sentimenti opposti che scuotono gli attori in scena, come se i tumulti interiori non fossero che un riflesso della violenza che alberga nel mondo reale.
Come nelle sue altre opere, lo scrittore spagnolo mischia con sapienza realismo e mistero, paura e coraggio, bene e male, creando un mix perfetto che tiene incollato il lettore alle pagine. Il finale aperto vi lascerà col fiato sospeso, costringendovi a correre in libreria per sapere come va a finire la storia.
Indicazioni terapeutiche: per chi ama Zafon e la Barcellona creata dalla sua penna.
Effetti collaterali: Non esiste una ricetta magica che ci tenga al riparo dalle delusioni, dall'amarezza, dai rimorsi. Vivere implica imparare a gestire la rabbia, la frustrazione, il dolore. Non c'è altra via che convivere con la parte più buia di noi. L'alternativa è la pazzia.