lunedì 18 dicembre 2017

Olive Kitteridge di Elizabeth Strout

Nel profondo Maine c'è una piccola cittadina Crosby, teatro di piccole tragedie quotidiane, dove il dolore del mondo sembra specchiarsi nell'animo dei suoi anonimi cittadini. A tenere le fila delle numerose storie è Olive Kitteridge, insegnate di matematica in pensione, dal carattere brusco e scostante.
Una serie di racconti il cui  fil rouge è proprio Olive, che talvolta compare come personaggio principale, altre volte come attrice secondaria, altre ancora ha un ruolo del tutto marginale. Attorno a lei e alla sua famiglia  ruotano infatti le vicende di conoscenti ed ex-allievi, che gravitano come piccoli satelliti intorno ad una stella capricciosa.
Contrariamente a quello che che si potrebbe pensare, l'unitarietà del racconto non ne risente, anzi, procedendo nella lettura si compone gradualmente un quadro, via via meno fosco, dal quale emerge la sensibilità e la visione del mondo della protagonista.

Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva.

Questa raccolta ha il sapore dolceamaro della vita, di tutte quelle storie che ci sfiorano ma che non conosceremo mai, dei piccoli grandi dolori che ci affliggono, ci prosciugano, ci feriscono senza ucciderci. La scrittura di Elizabeth Strout è calda e intima, capace di tratteggiare la psicologia di ciascun personaggio in modo dettagliato e mai banale. Sembra quasi di passeggiare tra le staccionate bianche dei giardini di Crosby, tra l'emporio e il piccolo ufficio postale, di sentirsi addosso le occhiate indagatrici dei vicini di casa, i loro giudizi severi, che bruciano la pelle come lingue infuocate.

Durante il viaggio continuava a pensare: questa non può essere la mia vita. E in quel momento si rese conto che per la maggior parte della sua esistenza aveva continuato a ripetere tra sé: questa non può essere la mia vita.

La protagonista, Olive,  di primo impatto non è certamente un personaggio amabile, ma indimenticabile sì. Robusta, goffa, ruvida al limite dello sgarbato, burbera e solitaria. All'inizio è difficile entrare in empatia con lei, capire le ragioni per cui è restata accanto al marito Henry, che sembra a stento sopportare, o il figlio Christopher, per cui è poco più che un'estranea. Ma andando avanti nella lettura, ci accorgiamo che dietro l'arrogante freddezza di Olive si cela una fragilità inattesa, una sensibilità inaspettata, che ha fatto sì che, suo malgrado, sia rimasta nel cuore di molti suoi vecchi alunni. Una figura ingombrante che che non fa sconti e con cui tutti, prima o poi, si sono dovuti confrontare.
Sarà lei a compiere il percorso di crescita maggiore, negato invece al marito Henry (simbolo della dolcezza e dell'amore gentile), riconoscendo i propri errori e le proprie debolezze, senza però voler ambire a diventare una persona migliore. Una sorta di crudele contrappasso per cui la possibilità di redenzione viene donata a chi meno sembra meritarla.

E se il piatto di Olive era stato pieno della bontà di Harry e lei lo aveva trovato gravoso, limitandosi a mangiucchiare qualche briciola alla volta, era perché non sapeva quello che tutti dovrebbero sapere: che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l'altro.

Olive Kitteridge è un libro vero, che non abbellisce la realtà, anzi ce la mostra in tutte le sue sfaccettature, conducendoci per mano tra le pieghe più oscure dell'animo umano. Un'opera intrisa di malinconia che ci mostra in completa trasparenza le dinamiche sociali della piccola provincia americana, attraverso gli occhi disincantati, ma forse per questo più acuti, di una straordinaria osservatrice.

Indicazioni terapeutiche: per chi si guarda indietro col cuore colmo di nostalgia e rimpianti.

Effetti collaterali: Olive non è che una vittima del stesso suo isolamento, ma ciononostante determinata ad andare avanti senza mai mostrare nessuna incrinatura.  Chiusa nel suo doloroso riserbo e rassegnata ai duri colpi della vita, ha capito che a nulla vale imprecare e prendersela col destino. Resta in lei, come una gemma nascosta, un bramoso bisogno di un po' di tenerezza, una carezza gentile capace di squarciare il sudario della sua solitudine.
Non è forse quello a cui tutti ambiamo?


giovedì 14 dicembre 2017

L'Arminuta di Donatella Di Pietrantonio



Avere due mamme, senza in realtà averne nessuna. La giovane protagonista dell'ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio scopre all'età dei tredici anni che quella che aveva sempre ritenuto sua madre, quella che l'ha allevata e riempita di attenzioni e cure amorevoli, non è chi dice di essere. Come un pacco postale, l'ha rispedita dalla vera madre biologica, che l'aveva ceduta quando era ancora in fasce.

Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso. 
L'Arminuta, che in dialetto locale significa "la ritornata", torna così nella casa natia, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese. Viene così catapultata in una dimensione parallela dove tutto ciò che aveva conosciuto è ormai un lontano ricordo: dovrà convivere con i fratelli e i genitori che per lei sono dei perfetti estranei, lontana dagli agii e dall'ovattata sicurezza in cui era cresciuta. L'unica alleata sarà la sorella minore Adriana che, seppur in modo primitivo e brusco, cercherà di aiutarla ad adattarsi alla nuove e alienanti dinamiche familiari.

Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.

L'Arminuta è il caso editoriale dell'anno, vincitore della cinquantacinquesima edizione del premio Campiello. Meritatamente aggiungerei. È infatti un libro commuovente e amaro che tratta in maniera delicata di genitori e figli, di ritorni e abbandoni. La scrittura di Donatella Di Pietrantonio è carica di sentimento ma mai ridondante, piena senza essere pesante. Dalle sue parole emerge tutta la crudeltà della vita, senza però giudizio alcuno.
La protagonista, di cui non sapremo mai il nome, racconta in prima persona il trauma di scoprire di essere cresciuta nella menzogna, figlia di silenzi e bugie, vittima degli egoismi degli adulti che, invece di proteggerla, l'hanno abbandonata a sé stessa.

Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.
Lontana da quella che ha sempre considerato casa sua, proverà il freddo, la fame, la solitudine, il disagio di sentirsi diversa e incompresa. Logorata dalle domande, non smetterà mai di sognare di poter tornare tra le braccia della sua "vera" mamma, fino a costruirsi un improbabile castello di spiegazioni pur di giustificarne l'abbandono.
Anche quando l'ultimo barlume di speranza si sarà spento, in lei rimarrà una durezza, simile a quella di una lama d'acciaio, forgiata dalla dolorosa condizione di essere stata rifiutata per ben due volte, che l'accompagnerà per il resto della sua vita. Resterà per sempre incapace di pronunciare la parola "mamma", orfana di due madri. Orfana di sicurezza, di fiducia, di amore. Una ferita incapace di rimarginarsi, un vuoto destinato a non essere mai colmato.

Indicazioni terapeutiche: per chi cerca una storia di abbandoni che tocchi le corde dell'anima.

Effetti collaterali: essere madri significa molto di più che partorire un essere umano. Implica amore, rispetto e sincerità . Il resto è gettare figli nel mondo, condannarli alla precarietà affettiva e alla solitudine. È più facile generare infelicità che il contrario.

martedì 12 dicembre 2017

Quando tutto inizia di Fabio Volo

L'ultimo libro di Fabio Volo è stato un regalo, diversamente non lo avrei comprato perché, sebbene abbia letto molti dei suoi libri, ultimamente ho come l'impressione che abbia poco da dire.
Quando tutto inizia ha confermato questa mia idea. Per carità, scorre bene, lo stile strizza l'occhio al lettore (o meglio alla lettrice ☺) tra una frase da bacio perugina e una scena pseudo-romantica, ma non esce dal seminato, va troppo sul sicuro e per questo delude.

Negli occhi delle persone che amiamo e che dicono di amarci, spesso col tempo ci si vede più piccoli e meno attraenti. Quando passi anni insieme a una persona finisci per vederne ogni parte, anche quella più buia. Negli occhi di uno sconosciuto, invece, hai ancora la possibilità di disegnarti e raccontarti per come ti piacerebbe essere.

Silvia e Gabriele si incontrano in un giorno di primavera come tanti, davanti a un gelato. Un gioco di sguardi, poche battute, sorrisi spontanei, quanto basta per aver voglia di rivedersi. Il secondo incontro in una libreria è sufficiente perché un piccolo seme metta radici. Da lì in poi è un crescendo: scoppia la necessità di vedersi, toccarsi, viversi. Ma Silvia è sposata.
Fare l'amore nella vasca da bagno, coccolarsi nudi tra le lenzuola sfatte, confidarsi davanti ad un calice di vino con sulle labbra ancora il sapore dell'altro diventano allora una via di fuga, una parentesi dal mondo per tornare ad essere sé stessi.
Ma si può davvero mettere in pausa la propria vita? Si deve scegliere tra passione e famiglia, tra tranquillità e desiderio o è giusto pretendere il pacchetto completo?
Mentre in Gabriele, allergico da sempre ai legami, si fa strada la voglia di condividere qualcosa di più che qualche ora furtiva, Silvia è vittima dei sensi di colpa.

Le nostre felicità separate erano più piccole, più risicate, non sarebbero mai potute essere come la nostra felicità insieme.

Fabio Volo ha un talento speciale: sa parlare al cuore delle donne. Sa cosa vogliono, sa cosa sognano ma soprattutto sa cosa vogliono sentirsi dire. Ma questa volta non è bastato.
Lo scrittore bresciano manca di coraggio e si affida a temi a lui cari ma così scade nella dilagante banalità . Anche in questa storia ricorre infatti allo stereotipo del maschio alfa brillante ma inaffidabile, il prototipo dell'uomo sfuggente che ogni donna ha sognato di far innamorare e che, contro ogni pronostico, cade esso stesso vittima di quell'imprevedibile sentimento che fa rima con cuore.
Quello che ne emerge è un quadro di una mediocrità spaventosa: da un lato quarantenni in carriera che si accontentano di relazioni usa e getta, dall'altra donne che tradiscono per noia ma poi si pentono, temendo il giudizio della società. Ma siamo sicuri che le donne 2.0 stiano ancora lì ad aspettare il cavaliere sul destriero bianco che le salvi dalla loro prigione dorata?

Indicazioni terapeutiche: per chi non è mai stato tradito.

Effetti collaterali: Quando tutto inizia non fa tanto riferimento alla storia clandestina tra i due protagonisti ma al percorso di crescita di Gabriele, che a partire dal dolore e dall'abbandono sarà capace di ricostruirsi, aprendosi ad un nuovo modo di amare. Perché alla fine la vita è una somma di tanti inizi, come una lunga strada che non sai mai dove ti condurrà.


venerdì 17 novembre 2017

Presentazione "Il cammino di Hamdan"

Noto sempre con dispiacere che alle presentazioni dei libri c'è sempre meno gente. D'altra parte l'Istat ha confermato che il numero di chi legge in Italia è in continuo ribasso: nel nostro Paese oggi ci sono oltre 4 milioni di lettori di libri in meno rispetto al 2010, senza considerare il fatto che nel 2016 sono circa 33 milioni coloro che non hanno letto nemmeno un libro di carta in un anno, cioè il 57,6% della popolazione.
Come dicevo tale disaffezione non dovrebbe stupirmi, invece mi intristisce ogni volta. Perché penso alle occasioni che le persone si perdono per conoscere, emozionarsi, ampliare i propri orizzonti.
Mai come questa volta  l'incontro con l'autore Hamdan Jewe'i ha rappresentato per me un'opportunità di riflessione come raramente capitano: impossibile non rimanere colpiti dalla sua positività, dalla sua fiducia nel prossimo e dalla sua convinzione di poter sconfiggere i preconcetti e
Anna Vezzoni che ha introdotto l'incontro ha usato il termine resilienza.
La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. Di costruire un cammino a partire dal dolore, senza rinnegare il passato, senza farsi consumare dall'odio.

Imparare a scrivere è stata una conquista molto importante, per me, una sorta di innamoramento per i segni, le decorazioni. La mia bella lingua con le sue tante forme apriva in me nuovi spazi, nuovi sogni. Il desiderio di comunicare si faceva bruciante e in poco tempo ricadevo nella disperazione dell’isolamento. Isolamento è proprio il titolo di una delle mie liriche: infatti, dopo aver imparato a scrivere ho iniziato a esprimere il mio dolore con i versi: poesie tristissime, apoteosi del mio dolore. Ne ricordo anche un’altra “L’ultimo momento”, scritta in occasione del mio tentativo di suicidio, a 8 anni.

Il cammino di Hamdan parte da lontano, da una stanza buia in una casa in un campo profughi a Betlemme, una stanza che è stata tutto il suo mondo per i suoi primi 11 anni. Hamdan nasce "diverso", con una disabilità che la sua famiglia, vittima essa stessa di una mentalità retrograda, non accettava. Nella società palestinese un figlio disabile è il frutto di una colpa, una punizione divina, un peso di cui farsi carico, uno stigma davanti agli occhi della comunità.
Per questo Hamdan è stato per anni una vergogna da dover celare agli occhi della gente, tanto che nessuno sapeva della sua esistenza. Fino al giorno in cui ha avuto la forza di imporsi e rompere le catene del suo isolamento per uscire nel mondo e frequentare gli altri bambini.
Da allora sono passati anni, anni che Hamdan ha speso in giro per il mondo testimoniando la sua esperienza e battendosi per i diritti dei disabili, affinché possano avere non solo le cure mediche di cui hanno bisogno, ma il riconoscimento sociale che meritano.
Il suo viaggio l'ha portato fino In Italia, dove ha conosciuto Franca Dumano, a cui ha raccontato la sua storia: è nato così il libro Il cammino di Hamdan, un affresco sullo straordinario percorso di liberazione compiuto da un ragazzo palestinese, imprigionato sin dalla nascita, da muri, porte sbarrate, steccati, filo spinato.

Negli anni della prigionia, non sapevo veramente come passare il tempo ed ero davvero triste. Quando ripenso alla mia infanzia mi stupisco di aver trovato la forza di superare la noia e la disperazione di quegli anni. Ho vissuto momenti davvero terribili, imprigionato nel mio corpo e recluso nella stanza della vergogna.

Una frase di Hamdan mi ha colpito: "Anche i disabili sono abili". Poche parole che racchiudono tutta la forza e l'energia di questo uomo che ha saputo usare il dolore non solo come carburante per il proprio percorso di crescita ma anche per lottare affinché questo cambiamento investa la società tutta, i cosiddetti "normodotati", che troppo spesso si limitano a voltare la testa dall'altra parte.




La storia di Hamdan è ancora più stupefacente se si pensa il luogo in cui è nato, la Palestina, in perenne conflitto con Israele da cinquanta anni. Palestina che purtroppo oggi significa per molti solo campi profughi, intifada, check-point, kamikaze. Ma soprattutto vivere in questa terra flagellata da scontri continui signifca ancora più difficoltà per accedere alle cure di cui le persone con una disabilità hanno bisogno. Una vita difficile resa ancor più difficile.
Eppure non c'è traccia di livore né di rabbia nella voce di Hamdan. Non biasima né la sua famiglia, con cui oggi ha ottimi rapporti, né tantomeno semina parole di odio. C'è solo speranza. Quella di costruire con l'aiuto di tutti coloro che credono che una pacifica convivenza sia possibile un nuovo mondo, un nuovo modo di stare insieme, che non escluda ma includa, abili e disabili, palestinesi e israeliani.
Franca Dumano dialoga con Hamdan Jewe'i è un libro che testimonia la grande voglia di vivere del suo protagonista, una volontà tale da spazzare via ogni pregiudizio e fanatismo. Affinché la voglia di gettare un ponte sia più forte del rancore. Perché come diceva Gandhi occhio per occhio il mondo diventa cieco.


giovedì 9 novembre 2017

Schegge di verità di Monica Lombardi


Una ragazza si sveglia in un ospedale senza memoria. Come è finita lì? Perché non ricorda nulla?
Si scopre così che è stata rapita insieme ad una sua amica, ma mentre lei è riuscita a fuggire, l'altra è ancora prigioniera dai suoi aguzzini. Parte così una lotta contro il tempo per ricostruire un passato che sembra imprigionato nella nebbia, indizio dopo indizio,  nel disperato tentativo
di mettersi sulle tracce dei rapitori.
La protagonista sarà aiutata nel suo percorso dal Commissario Emilio Arco e dalla medium Ilaria, nonché da un'affascinante psichiatra: tutti insieme la guideranno attraverso la foschia della sua amnesia per cercare di ricostruire il suo passato.
L'ho trovato, in verità, un giallo un po' sopra le righe. Il fulcro della storia, più che l'indagine in sé, sono infatti le emozioni e la caratterizzazione delle personalità dei personaggi: lo spaesamento della protagonista che non sa più chi è e la sua inopportuna attrazione per un uomo che non può avere, la disperazione di Andrea che lotta per poter tornare a stringere la donna che ama, la calma energia di Ilaria che vive sul baratro dell'orrore altrui, l'acume del commissario che intesse le indagini come un abile ragno.

Le avevano detto che si chiamava Livia. Un nome come un altro, non le diceva proprio niente.

Schegge di verità è un libro che all'inizio coinvolge il lettore ma si perde poi, rallentando il ritmo e inanellando una serie di colpi di scena un po' troppo prevedibili. Non conoscevo l'autrice originaria di Noavara e sono rimasta comunque colpita dal suo stile diretto e coinvolgente: Monica Lombardi riesce infatti  nell'ardua impresa di coniugare due mondi così lontani come il thriller e la commedia rosa fondendoli nell'ibrido del romatic supsense, genere che appunto mescola indagini e sentimenti, senza sconfinare nel gusto macabro dei giallisti del Nord Europa.
L'epilogo un po' troppo sbrigativo è forse la nota che stona di più. Ma il finale aperto e l'esistenza del sequel lascia presagire che le risposte mancanti arriveranno nel prossimo capitolo. (O almeno spero).

Indicazioni terapeutiche: per chi cerca un buon giallo non troppo impegnativo.

Effetti collaterali: William Shakespeare affermava che un nome è soltanto un nome: Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo.
Eppure cosa rimane di noi quando ci vengono portati via i nostri ricordi e le nostre certezze?
La mente è come uno specchio e quando va in frantumi diventa impossibile riconoscervisi e quindi riconoscersi. Il confine tra la realtà e immaginazione si sfuma. Restano solo schegge. Schegge di verità.


giovedì 26 ottobre 2017

IT di Stephen King


Ieri sera sono andata a vedere il nuovo remake di IT. Che delusione. Il film non regge il confronto con l'originale del 1990 ma sopratutto scompare se paragonato al libro da cui è tratto. IT è umanamente riconosciuto, a ragione, il capolavoro di Stephen King.
La trama la conoscete tutti, così come tutti conoscete lui, IT,  la creatura che si sveglia ogni 27 anni per nutrirsi degli abitanti di Derry. Penny Wise, il clown che ha popolato gli incubi di intere generazioni di bambini.
Ma etichettare questo romanzo come un semplice libro horror sarebbe riduttivo, IT è molto di più. In primo luogo è un grande romanzo di formazione che narra le vicende di un gruppo di ragazzini e di come la loro amicizia li abbia resi tanto forti da battere un mostro millenario, un mutaforma capace di assumere l'aspetto delle loro paure più recondite.


L'unico modo per andare avanti è andare avanti. Dire lo posso fare anche quando sai che non puoi. 

Il romanzo è costruito attraverso continui salti temporali tra il presente (la storia 
 è ambientata negli anni '80 considerando che l'opera è stato pubblicato nel 1986), in cui i
protagonisti sono ormai cresciuti e hanno dimenticato la loro città natale, e l'estate del 1957-58, durante la quale affrontarono per la prima volta IT, in un continuo rimando tra
l'infanzia e la maturità, tra la capacità di credere che tutto sia possibile e lo scetticismo dell'età adulta. Riusciranno i nostri eroi a ritrovarsi e a battere, questa volta per sempre, l'incubo della loro adolescenza?


Parti e cerca di continuare a sorridere. Trovati un po' di rock and roll alla radio e vai verso tutta la vita che c'è con tutto il coraggio che riesci a trovare e tutta la fiducia che riesci ad alimentare. Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio.

La grande forza di King sta nell'aver saputo costruire un grande affresco della società americana: Derry è  l'emblema della società occidentale disposta a sacrificare vittime innocenti sull'altare dell'ipocrisia e del perbenismo. IT è allo stesso tempo un mostro alieno ma anche una componente imprescindibile della cittadina del Maine, capace di vivere e prosperare grazie ai suoi abitanti e alle loro angosce segrete. Non c'è IT senza Derry, così come non c'è Derry senza IT, in una sorta di patto non scritto di reciproca protezione.
A spezzare questo perverso incantesimo arriveranno loro, i membri del Club dei Perdenti, Bill, Bev, Ben, Stan, Richie, Eddy e Mike, ognuno diverso, ma ciascuno simile nella propria solitudine. Sarà la loro capacità di credere nella magia, di capire che la vera forza scaturisce dalla capacità di restare unti, combattendo gli uni per gli altri, che li aiuterà non solo a sconfiggere il mostro per antonomasia, ma le loro paure più inconfessabili. Ciò che è certo è che dopo la battaglia non saranno più gli stessi: nello scontro scopriranno infatti di essere più forti di quanto avrebbero mai immaginato. Ma il marchio dell'orrore resterà loro addosso, come una cicatrice indelebile, che li costringerà a dimenticare per sopravvivere.


Forse non esistono nemmeno amici buoni o cattivi, forse ci sono solo amici, persone che prendono le tue parti quando stai male e che ti aiutano a non sentirti solo. Forse per un amico vale sempre la pena avere paura e sperare e vivere. Forse vale anche la pena persino morire per lui, se così ha da essere. Niente amici buoni. Niente amici cattivi. Persone e basta che vuoi avere vicino, persone con le quali hai bisogno di essere; persone che hanno costruito la loro dimora nel tuo cuore.


Ciò che rende questo libro un capolavoro nel suo genere è la capacità di affrontare molti temi importanti come il bullismo, il razzismo, la violenza e gli abusi familiari, l'integrazione. IT è soprattutto una grande metafora sulla difficoltà di diventare grandi e un'indimenticabile inno all'amicizia e al potere indistruttibile di certi legami.
I  pomeriggi estivi infiniti passati tra mille avventure, i giochi ai Barren, le corse in bicicletta, ricordi indelebili di un'infanzia perduta per sempre. Forse per questo giunta alle ultime pagine di questo romanzo sono stata assalita da una strana malinconia. Lasciare Bill e la sua Silver, le battute di Richie, la gentilezza di Ben, gli sguardi timidi di Bev è stato un po' come lasciare un gruppo di amici.

Indicazioni terapeutiche: per chi vuole esorcizzare le proprie paure.

Effetti collaterali: In fondo ognuno di noi ha combattuto il proprio incubo durante la propria adolescenza.. Come afferma King i mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono. Tuttavia fuggire davanti ad essi senza trovare mai il coraggio di affrontarli equivale alla peggiore delle sconfitte.


venerdì 20 ottobre 2017

L'amore addosso di Sara Rattaro


Una donna soccorre un uomo che ha avuto un malore sulla spiaggia e lo segue all'ospedale, dove per uno strano scherzo del destino è stato ricoverato anche suo marito, vittima di un incidente mentre era in compagnia dell'amante.
La realtà celata dietro il velo delle apparenze è ben diversa: l'uomo con cui Giulia, la protagonista, si trovava non è sconosciuto ma in realtà è il suo amante. Il caso beffardo l'ha presa per mano fino a condurla lì, al capezzale dei soli due uomini che abbia mai amato. Da una parte c'è Emanuele, suo marito, che l'ha salvata da una madre opprimente, che l'ha presa per mano e l'ha amata nonostante le sue ritrosie. Dall'altra Federico, il suo amante, l'uomo per cui è pronta a rischiare tutto, a lasciarsi ogni segreto e rimpianto alle spalle.

Ma soprattutto aveva stretto una parte di me con così tanta forza che se l'era portata via quando se n'era andato. Per questo ero finita lì, perché in vita mia non riuscivo mai a tornare indietro.

Tra le corsie dell'ospedale si consuma il dramma della protagonista femminile di questo romanzo che, schiacciata dal dolore, prova a ripercorre la sua storia, nel vano tentativo di tirare le fila di un'esistenza che pare sfilacciarsi, sciogliendosi come un gelato al sole.
Giulia che è moglie, figlia, amante. Giulia che lavora, che ride, che ama. Giulia che nasconde un terribile segreto, una cicatrice attorno alla quale ha costruito la sua vita, una bella vita, almeno in apparenza.
Ma la felicità non assomiglia quasi mai ad una lista della spesa. Per quanto si voglia o si possa lottare, ci sono vuoti che non riusciamo a colmare, assenza che bruciano più di qualsiasi presenza.

Non importa quale sia la luce che ci illumina. Importa che ci sia qualcuno disposto a guardarci.
L'amore addosso rimanda al senso di soffocamento che affligge Giulia, il suo essere fin troppo avvolta, prigioniera dei tanti ruoli che si è lasciata cucire addosso suo malgrado, incapace di lottare, di dire no. È il prototipo della brava ragazza che si sente sempre obbligata a fare ciò che gli altri si aspettano da lei.
Ecco che il tradimento diventa allora una fuga, un modo per riaffermare sé stessa, e soprattutto un modo per prendersi una rivincita, non tanto nei confronti di suo marito, ma di sua madre. L'intero romanzo infatti, più che indagare i sentimenti scaturiti dalle relazioni extraconiugali, si concentra sul tema della maternità, perché se ci sono tanti modi di essere madre, ce ne sono altrettanti per non esserlo.


Cos’è la felicità? Avere tanti soldi, figli perfetti, vivere in un paradiso e avere il lavoro dei propri sogni? E se, per caso, capitasse che i nostri figli fossero semplicemente come tanti altri, il nostro lavoro si limitasse a non dispiacerci e al posto del paradiso abitassimo in un luogo comodo? La verità è che la felicità spesso assomiglia molto al famoso bicchiere pieno a metà.

Sara Rattaro costruisce un'opera che parte con delle buone premesse, ma si perde strada facendo.  Benché infatti in apertura le tematiche trattate facessero ben sperare, la storia invece di crescere naufraga verso l'inverosmiglianza. Il finale fin troppo frettoloso e lo stile a tratti didascalico depotenziano una trama che sarebbe potuta essere travolgente.
L'amore addosso si limita ad essere una lettura piacevole che non tocca però nessuna corda in profondità. Peccato.


Indicazioni terapeutiche: per chi si è perso ma si è ritrovato; per chi non urla, ma ha imparato a sussurrare sommessamente per non esplodere.

Effetti collaterali: Ci sono tanti tipi di amore, quello tra madre e figlio, tra sorelle, tra amici, tra marito e moglie. Ci sono amori negati, sommersi, dimenticati. Altri che squarciano l'anima e lasciano un marchio indelebile. Altri ancora che curano le ferite, mormorando sommessamente al cuore. Quale di questi è vero? Quale di questi vale la pena vivere? Forse una risposta giusta non esiste.
Come scrive Federico a Giulia: E non ti arrovellare troppo nel trovare spiegazioni: ricordati che esistono domande alle quali si possono dare solo risposte sbagliate.

lunedì 2 ottobre 2017

Le nostre anime di notte di Kent Haruf

“Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore non trovi?”
È così che è iniziata. Un giorno Louise bussa alla porta di Addie e gli domanda se ha voglia di passare le notti insieme a lei. Non per sesso, ma per tenersi per mano nel buio delle coperte, in cerca di un po' di calore umano e di comprensione. Tra i due nasce così una tranquilla routine, che sfocia presto in un tenero affetto, un lumicino destinato a scaldare il cuore di due anziani vedovi, che non hanno nessuna colpa se non quella di non essersi inariditi, di non aver perso la voglia di aprirsi all'altro, di godere delle piccole cose di ogni giorno.
Un sentimento puro destinato malauguratamente a scontrarsi con lo spietato conformismo della piccola cittadina in cui abitano, Holt, in Colorado. I due protagonisti non solo saranno oggetto di biasimo da parte di vicini, amici, conoscenti, ma dovranno lottare anche contro la cieca disapprovazione  delle loro famiglie.



Ho deciso di non badare a quello che pensa la gente. L'ho fatto per troppo tempo, per tutta la vita. Non voglio più vivere così. Dà l'idea che stiamo facendo qualcosa di sbagliato o scandaloso, qualcosa di cui vergognarci.


Kent Haruf confeziona una storia tenera e spietata, tratteggiando in modo pulito e sobrio il nascere di una promessa che è in sé portatrice di speranza e felicità, un patto tra due anime quiete per combattere il mostro peggiore di tutti, la solitudine. Un'amicizia nata come antidoto al silenzio della notte che cala come un sipario, lasciando sbigottiti e impauriti, in balia dei pensieri e dei timori più oscuri.


Amo questo mondo fisico. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L'erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio e parlare con te.

Le nostre anime di notte è un romanzo semplice, delicato, lieve come un fiocco di neve. Come lo stile di Haruf, essenziale e sfrondato, capace tuttavia di emozionare e coinvolgere, senza dover per forza ricorrere a voli pindarici e retoriche affettate. Eppure lascia il segno. Un romanzo sull'amore e sul coraggio che nasconde, neanche troppo velatamente, una critica al perbenismo e all'ipocrisia di tutti coloro che hanno fatto dell'apparenza la propria ragione di essere.
Del resto si sa, la gente ti perdona tutto, tranne la felicità.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede che il cuore non invecchi mai.

Effetti collaterali: Si avverte tra le pagine l'urgenza da parte di Haruf di terminare il libro ( Le nostre anime di notte è uscito postumo). Il motivo è da ricercare senza dubbio nella malattia che affliggeva lo scrittore. Eppure, anche se vicino alla morte, l'autore è riuscito a lanciare un grande messaggio di speranza: anche quando la vita che è trascorsa è più di quella che resta da vivere, resta sempre  accesa la possibilità che ancora qualcosa di buono possa arrivare.

martedì 26 settembre 2017

Il mare dove non si tocca di Fabio Genovesi

Mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa. Ho letto tutti i libri di Fabio Genovesi e non posso che patteggiare per lui. Per il modo in cui mischia, in maniera sempre nuova e sorprendente, ironia e malinconia. Per come descrive una terra, la sua, che poi è anche la mia, che, se non ne fossi già ammaliato, te ne innamoreresti all'istante. Perché è uno scrittore di successo ma ai salotti milanesi preferisce Forte dei Marmi, non quella glamour però. Quella nuvolosa e deserta, quella che rimane quando i turisti  tornano a casa, con la valigia piena di ricordi delle serate estive e dei mirabolanti fuochi di Sant'Ermete, ma noi restiamo qui. E magari lo incontri sul pontile a parlare di muggini coi pescatori.
Eppure il suo libro precedente, Chi manda le onde, non mi era piaciuto e ve lo avevo confessato nella mia recensione ( leggi qui ) . Mi ero sentita quasi tradita nelle mie aspettative.
E poi il romanzo vinse il Premio Strega Giovani 2015.
E mi sono sentita un po' così. In colpa. Come se non avessi capito tutto quello che c'era da capire. Così il 5 settembre quando è uscito Il mare dove non si tocca sono corsa ad acquistarlo. E per una strana legge del contrappasso, premio o no, questa volta quest'ultimo romanzo mi è entrato sotto pelle subito, come un sapore di buono che ti resta in bocca per ore e nella mente per giorni.

La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto. 


Il mare dove non si tocca è la storia di Fabio, un ragazzino che abita in un paesino di provincia, e della sua strampalata famiglia: il babbo aggiusta-tutto che assomiglia a Little Tony, la nonna che apparecchia sempre anche per il nonno che non c'è più e loro, i nonni o meglio, gli zii.  Aldo, Aramis, Adelmo, Arno, Athos, sui quali grava una terribile maledizione, che li condanna a diventare matti, se non si sposano entro i quaranta anni. Rumorosi e polemici, impetuosi e rissosi, capaci di catturare qualsiasi animale che corra, voli o nuoti,  rappresentano la quintessenza dell'eccentricità. Ma d'altronde in Versilia siamo fatti così: ci piace esaltare la stranezza, sopratutto la stranezza della vecchiaia.

Il Villaggio Mancini è  un po' villaggio del Far West, un po' Macondo, con un chiaro rimando al realismo magico di Marquez. Non c'è contraddizione: come ha affermato lo scrittore fortemarmino durante una sua presentazione "Il realismo magico è l'unico realismo autentico, perché se si pensa che la realtà sia la fila alle poste, le notti insonni, ... Quella non è la realtà. Quella è solo la crosta della realtà."

Perché il pesce tuo non te lo prende nessuno. Nuota strano, nuota a caso, ma eccolo che arriva a te.

Il piccolo Fabio cresce, senza perdere il suo sguardo disincantato, tra gare di presepi e coccinelle, tra gite ai monti col parroco e funghi scintillanti,  tra la solitudine e la paura di non essere abbastanza simile agli altri. Se c'è una lezione che il protagonista impara è che non puoi prepararti. Che la vita ti rovescia addosso comunque tutto, come il lavarone che il mare butta sulla spiaggia. Non importa quanto preghi, quanto ti impegni ad essere bravo, non conta nulla. Tanto vale inseguire quello che ami, che tanto il dolore ti cade addosso lo stesso e non c'è verso di scansarlo.
Il mare dove non si tocca è così. Si ride, ci si commuove, si ride ancora. Si legge la storia di Fabio e vi si riconosce la propria, in una sorta di riflesso cangiante, di piccolo sussulto che riporta ognuno di di noi alla propria infanzia, un luogo abitato di ricordi, mostri e sogni infranti.

...io lì per lì quest'anima non me la sapevo immaginare, poi però l'ho capito che l'anima di ogni persona è proprio questa qua: è la sua storia da raccontare, e più è bella più vola fra le bocche e le orecchie e dura nel tempo. Il tuo corpo finisce in una cassa, ma la tua storia viaggia per il mondo, viaggia per sempre.

Fabio Genovesi ci racconta la sua storia, come è stata ma soprattutto come sarebbe potuta essere, cosicché il lettore non sa mai dove finisce la realtà e dove inizia la finzione narrativa.
Il valore aggiunto di questo romanzo sta proprio nell'universalità del suo significato intrinseco: Fabio cresce a Vittoria Apuana ma il libro sarebbe potuto essere ambientato benissimo in un un paesino in Brasile o in Turchia. Se c'è una cosa che vale per tutti è propria questa: casa tua, il posto dove sei nato, è  diverso e uguale per tutti. Allora raccontare la provincia per Genovesi diventa un modo per dare vita ad un grande racconto epico, su modello della grande narrativa americana, una sorta di "mitologia dei posti". L'autore parla dei posti degli altri parlando del suo e così facendo compie la magia: accende il calore e l'amore che ognuno ha per il suo pezzo di mondo, quello spicchio dell'universo che è solo nostro,  ma che, paradossalmente, condividiamo con il resto dell'umanità.

Indicazioni terapeutiche: per chi è rimasto bambino, per chi ha paura del mare aperto ma si tuffa lo stesso, per chi non perde la speranza.


Effetti collaterali: Non sempre ciò che ci allontana dalla strada comune, che ci fa essere dissimili dalla moltitudine è un male.  Anche la solitudine può essere un valore, se ci spinge fuori dalla nostra rete di sicurezza, dove niente è sicuro o conosciuto, ma dove sono nascoste anche infinite possibilità, come tesori sepolti in fondo al mare. Solo dove non si tocca si nuota davvero.



lunedì 11 settembre 2017

Chirù di Michela Murgia

Michela Murgia è balzata alla cronache per le sue stroncature nel corso del programma Quante storie su RAI3, in perenne bilico tra ironia e cattiveria al vetriolo. Non sarà simpatica, ma non si può metterne in dubbio l'intelligenza e l'acume. Eleonora, la protagonista del romanzo Chirù, le assomiglia. Una donna forte, colta, anche lei figlia della sua amata Sardegna.
Eleonora è un'attrice di teatro, alle soglie dei quarant'anni, animata da una speciale vocazione, quella di prendere sotto la sua "ala" giovani talenti acerbi, di mostrare loro la via per il successo, in una sorta di apprendistato sui generis, dove nulla si insegna ma qualcosa si impara sempre.


Vorrei poter dire che quella tra noi fu un'immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirù lo riconobbi dall'odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell'odore era lo stesso mio.

L'allievo prescelto è lui, Chirù. Scanzonato allievo di violino al Conservatorio che sogna un futuro da grande artista, alla bramosa ricerca di una guida.
Li separano venti anni e una diversa consapevolezza: da una parte la "maestra" che forte del proprio fascino e della propria esperienza gode della propria posizione privilegiata, nutrendosi dell'ammirazione e dell'ingenuità del giovane ammiratore, dall'altra l'ambizione di un ragazzo disposto ad assorbire ogni insegnamento, a farsi plasmare, a diventare altro, pur di avere l'occasione della vita.


Della sua fragilità in quell'istante amai proprio quello che dell’amore si paga piú caro: l’assenza di calcolo e di misura che appartiene solo alle cose nate libere. 

Un rapporto che travalica i ruoli mentore-allievo per sconfinare nel desiderio, ma non di certo nell'amore. Non c'è nessuna affinità elettiva ma un riconoscersi, una volontà di appagamento che assomiglia più al controllo che non alla generosità. Eleonora non si compiace forse della debolezza e della fragilità di Chirù ? Non cadrà, suo malgrado, ella stessa vittima della sua incapacità di comprendere che è destinata ad essere travolta dai suoi stessi insegnamenti?
Chirù non è un libro sui sentimenti ma sul potere e sulle relazioni, o meglio sul potere nelle relazioni. Che lo si ammetta o meno è sempre presente una tensione all'interno di un rapporto, un gioco di ruoli destinato a decretare un solo vincitore. Forse anche per questo la storia vira in direzione del'iper-soggettivismo: ogni emozione, ricordo, avvenimento è filtrato attraverso  gli occhi della protagonista femminile, mentre tutti gli altri personaggi, quasi prettamente maschili, appaiono evanescenti, diafane figure sullo sfondo.

Ho coltivato una speciale diffidenza per chi si compiace di dire sempre quello che pensa. Temo con ogni fibra quel tipo di persona che è pronta a scambiare per pensiero il moto casuale di tutto quello che gli passa per la testa e chiama sincerità l’incapacità di controllarlo.

La Murgia è una maestra di stile, tagliente, puntuale e barocca al tempo stesso. Una che, importa poco cosa scriva, si percepisce che ha qualcosa da dire. Questo romanzo, a fronte di una storia disadorna e a tratti sconnessa, mi ha colpito per i dialoghi intensi, per i non detti che pesano più che mille parole. Un libro che, anche se  a tratti sembra perdersi, regala in ogni caso un'esperienza appagante.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede che ogni legame implichi una forzatura della propria natura.

Effetti collaterali: L'Eleonora del presente, affascinante e sicura di sé, ha un legame profondo con la bambina che è stata, una figlia oppressa da un padre prevaricatore e una madre debole che la colpevolizzava invece di proteggerla. Il bisogno di avere il controllo, di trovare un sostituto ad un figlio mai avuto, affonda le radici lì. Nel bisogno di riaffermare una femminilità troppo a lungo negata, di essere padrona non solo della sua vita, ma anche artefice del destino altrui.


lunedì 17 luglio 2017

Non volevo morire vergine di Barbara Garlaschelli

A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà. E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.

La prima vita di Barbara finisce il 3 agosto 1981 a Arma di Taggia. Una corsa tra le onde, un tuffo, un rumore di ossa spezzate, un incendio che invade il corpo, immobile, che galleggia a pancia in giù a pelo d'acqua.
Come accade spesso, in un solo attimo ogni cosa è cambiata per sempre. Barbara rimarrà tetraplegica, incatenata per il resto della sua vita ad una sedia a rotelle.
Alzarsi dal letto, correre, preparare un arrosto , indossare i tacchi, salire o scendere le scale, accendersi una sigaretta, farsi un bidet, stringere un mano, ballare, raccogliere dei fiori. L'elenco delle cose che non potrà più fare da sola sembra estendersi fino allo sfinimento.


Nessuno può sapere il dolore che provo, e non perché non tentino di capire ma perché è impossibile. Nemmeno io immaginavo che potesse esistere un dolore così. Del corpo e della mente. Un dolore che si impasta di una paura che non comprendo.

Ma Barbara è molto di più di una lista di "no", è una lottatrice, una "disabilitata" che ha lottato per riguadagnare ogni centimetro di indipendenza, che si è laureata ed è diventata scrittrice, che ha saputo affidarsi all'immaginazione per non rimanere sdraiata in un letto a fissare un soffitto bianco.
Ma non è sufficiente.
Vuole di più. Essere l'amica confidente, la letterata di successo, la donna risoluta e coraggiosa che tutti ammirano non le basta.
Barbara vuole godere e far godere.
Vuole il sesso, la passione, l'eccitazione, l'amore.


Il corpo è il biglietto da visita con cui ci presentiamo al mondo. Nessuno sa cosa si celi dentro di noi, ma tutti vedono siamo, anche se ognuno ci vede a modo suo (bella, brutta, interessante, carina, insignificante, fascinosa). Ci palesiamo al mondo con il nostro corpo.

Non volevo morire vergine è  il racconto autobiografico in cui l'autrice,  Barbara Garlaschelli,  si mette a nudo e ripercorre, con voce intima, il lungo percorso di riscoperta della propria auto-consapevolezza: la voglia di piacere, di vivere a pieno, senza barriere né limitazioni, la propria femminilità e sessualità, lottando contro i tabù che persistono nella nostra società, in cui i disabili sono percepiti come creature asessuate, quasi angeliche, che suscitano affetto e comprensione, senza comprendere che in realtà, hanno “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni”.
Un cammino durato trent'anni costellato di delusioni, frustrazioni, umiliazioni, in cui la scrittrice affronta la sua paura più grande, quella di essere rifiutata, un timore che appartiene a tutti, uomini e donne "normodotati", ma che nei "disabilitati" diventa un terrore assoluto in grado di soverchiare l'intera esistenza.
Con una buona dose di ironia e cinismo, la protagonista narra i suoi primi approcci, i baci impacciati, gli appuntamenti imbarazzanti, le farfalle nello stomaco, in una girandola di figure maschili, a volte attente e premurose, a volte patetiche e meschine, sempre protetta dalla rete di sicurezza costituita da Renzo e Franca, i suoi straordinari genitori.



Niente dovrebbe restare vergine. Nessuna vita, nessuna pagina bianca, nessun pensiero nessun luogo. Forse qualche isola immaginaria per poter far rinascere le nostre emozioni e amarle e riamarle. Niente dovrebbe restare immacolato, neanche la neve, sulla quale le tracce di animali, foglie cadute, passi di uomini e donne, raccontano della vita. Niente dovrebbe restare vergine, né il corpo né la mente, che racchiudono in sé la traboccante vitalità di ciò che siamo.
Quella di Barbara Garlaschelli è la testimonianza di una donna libera che  ha vissuto e combattuto, e non deve più dimostrare, sopratutto a sé stessa, di essere forte. Una donna finalmente integra, non più divisa  tra l'accettarsi o il rifiutarsi: Oggi posso e voglio piangere le mie lacrime, la mia fragilità, l’immenso dolore per tutto ciò che ho perso.
Perché, in fondo, la più importante delle conquiste è quella di poter mostrare le proprie insicurezze, senza paura che gli altri le usino come un'arma contro di noi.

Indicazioni terapeutiche: per chi non crede che il dolore renda persone migliori; per chi sa che ognuno di noi è, a suo modo, fragile.

Effetti collaterali: La verginità di cui la protagonista si vuole liberare non è da intendersi ovviamente in senso strettamente "anatomico", ma riflette la sua volontà di  mettersi in gioco, di vivere a pieno, a prescindere dalla propria "corporeità", ogni esperienza, viaggio, delusione, gioia, giornata di sole, viaggio, emozione, sbaglio, successo, fallimento. La voglia di normalità, che poi altro non è che il desiderio imprescindibile di essere accettati e amati.



giovedì 13 luglio 2017

L'amante giapponese di Isabel Allende



Alma Belasco, facoltosa ultraottantenne, decide di ritirarsi per trascorrere gli ultimi anni della sua vita a Lark House, una residenza per anziani vicino San Francisco. Qui stringerà amicizia con Irina, giovane infermiera moldava dal passato oscuro, che finirà per innamorarsi del nipote dell'anziana, Seth.
Spinti dalla curiosità di scoprire cosa si nasconde dietro le misteriose fughe amorose di Alma, i due scopriranno che la donna nasconde un segreto, la storia d'amore clandestina con il giardiniere Ichimei Fukuda. Sarà propria Alma a ripercorrere con i due giovani la sua lunga vita, dando vita a un racconto che riserverà non poche rivelazioni.

Tutti nasciamo felici. Lungo la strada la vita si sporca, ma possiamo pulirla. La felicità non è esuberante né chiassosa, come il piacere o l'allegria. È silenziosa, tranquilla, dolce, è uno stato intimo di soddisfazione che inizia dal voler bene a se stessi.

L'amante giapponese è un viaggio nel tempo che ripercorre la straordinaria esistenza della protagonista, la perdita dei genitori, l'infanzia con gli zii benestanti Isaac e Lilian, gli studi, i viaggi, la vita da privilegiata, da chi ha avuto tutto e non ha dovuto rinunciare a niente.
E sopratutto il suo legame con Ichi. Un amore che innerva un'intera esistenza,  che brucia come brace sotto la cenere, senza stancarsi né fiaccarsi.

Ci sono passioni che divampano come incendi fino a quando il destino non le soffoca con una zampata, ma anche in questi casi rimangono braci calde pronte ad ardere nuovamente non appena ritrovano l’ossigeno.

Un sentimento soffocato in nome delle convenzioni, che non solo non si è consumato con gli anni, ma ha trovato nella terza età una nuova dimensione. Questo romanzo è infatti una sorta di inno alla senilità, un periodo della vita in cui fare pace con sé stessi, con i propri difetti ed errori. L'unica fase della vita in cui si può vivere con leggerezza, perché il domani non fa più paura, il domani non esiste più. Esiste solo il presente e il passato, che ritorna in un continuo loop, i cui fantasmi si fanno compagni discreti dell'ultimo viaggio.

Abbiamo detto spesso che amarci è il nostro destino, ci siamo amati nelle vite precedenti e continueremo a incontrarci nelle vite future. O forse non c’è né passato né futuro e tutto accade simultaneamente nelle dimensioni infinite dell’universo. In questo caso, siamo insieme costantemente, per sempre. È meraviglioso essere vivi. Abbiamo ancora diciassette anni, Alma mia.

Isabel Allende è, come prevedibile, una narratrice straordinaria, sebbene in questo romanzo non tocchi le vette dei suoi più grandi successi. La scrittrice cilena ha voluto strafare, mescolando rimandi storici quali la persecuzione degli ebrei, l'attacco a Pearl Harbour e i campi in cui furono confinati i Giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, con altre tematiche come l'Aids, l'omosessualità nascosta, l'aborto, l'eutanasia, fino a scadere nell'inverosimile. Lo stile è scorrevole, anche se, a tratti, banale.
Resta una lettura piacevole, che però non va aldilà della letteratura rosa, lo svago di qualche ora che non lascia significative tracce.

Indicazioni terapeutiche: per chi vuole credere che la vera passione non invecchi mai.

Effetti collateraliHo empatizzato con Alma fin da subito, con il suo anticonformismo e la sua voglia di indipendenza, una donna forte dalla vita avventurosa. Eppure non le ho perdonato il suo unico atto di viltà. L'aver rinunciato al suo grande amore per paura, o meglio per perbenismo. Cinquanta anni fa i matrimoni misti erano malvisti, lo sono ancora oggi. Scegliere Ichimei avrebbe significato perdere tutto, il suo status, i suoi privilegi, la sua rete di sicurezza. Non ce l'ha fatta Alma. Ha preferito sé stessa. Il prezzo del suo egoismo è stato dover vivere un'esistenza a metà, qualche lettera colma di parole consolatorie al posto di una vita vissuta gomito a gomito nelle gioie e nelle difficoltà.



venerdì 30 giugno 2017

LEIELUI di Andrea De Carlo


Ho letto LEIELUI (tutto maiuscolo, tutto attaccato) a distanza da pochi giorni da L'imperfetta Meraviglia, ultimo titolo uscito di De Carlo. Il confronto era quindi inevitabile. Non vi è dubbio che vi siano molti richiami tra i due libri: i due protagonisti diversi eppure simili sotto la pelle, il balletto di sensazioni che li investe con una furia inarrestabile, i gesti densi che riempiono i silenzi, il bisogno di viversi aldilà delle convenzioni.
Claire Moletto, americana che lavora in un call center a Milano incontra, o meglio si scontra, con Daniel Deserti, scrittore dal passato fulgente ma che sembra aver perduto la voglia di scrivere ( è impossibile non riconoscere in lui l'alter ego dello scrittore milanese).
Come da cliché tra i due scoppierà un'attrazione inspiegabile, mascherata all'inizio da una pruriginosa antipatia, che li porterà a deragliare dai binari delle loro vite.


Le persone più interessanti sono sempre il frutto di situazioni complicate.


Cliché è la parola chiave. In LEIELUI infatti l'intreccio infatti è infarcito di stereotipi letterari.
Lei è una personaggio femminile complesso: leggiadra e profonda, bella senza averne l'aria, sensuale ma non volgare, super-percettiva, brillante senza risultare supponente.
Lui incarna il prototipo che unisce genio e sregolatezza, il maschio alfa che colleziona avventure di una notte, il padre assente e collezionista di relazioni e matrimoni naufragati.
Lei è succube del fidanzato avvocato milanese che la desidera perché esotica ma vuole cambiarla, normalizzarla, imborghesirla.
Lui fatica a sopravvivere ad un ambiente, quello dell'editoria, popolato finti scrittori prestati dalla TV, nel quale ormai l'unica logica che conta è quella commerciale.


“Non trovi stupefacente come nel primo istante del primo incontro uno raccolga tutte le informazioni rilevanti sull'altra persona?” “Sono tutte lì” dice lui. “Positive e negative, come in una fotografia ultradettagliata. Tutte le caratteristiche che ti possono piacere e tutte quelle che non ti possono piacere per niente.”

Eppure a me il libro è piaciuto.
Non sempre una trama avvincente fa un buon libro. Non basta. Serve la capacità di andare oltre, di emozionare il lettore. Raccontare dell'amore senza scadere nella banalità non è mai facile. Per me, De Carlo ci riesce.
Troppi luoghi comuni? Troppa enfasi? Nessuno come lui è in grado di sezionare le emozioni, di immaginare dialoghi e situazioni, di danzare intorno ai sentimenti, di evocare paesaggi, turbamenti, suggestioni. Ha la capacità di immergersi nelle relazioni, di scrivere per pagine e pagine senza in realtà narrare niente, e, al contempo, senza perdere di intensità.

Non riesce a credere a quanto siano infantili i nostri impulsi di base: inseguire quello che ci viene negato, scappare da quello che ci viene offerto.

Alcuni detrattori  accusano De Carlo di essere troppo commerciale, un mercenario che sforna best-seller a comando. Crede di essere il più grande scrittore italiano, dicono.
La verità è che LEIELUI è un libro non nuovo, che racconta un topos letterario come quello di un triangolo amoroso,  ma lo fa in modo talmente evocativo e coinvolgente da risultare credibile. L'abbondare di particolari potrebbe risultare stucchevole o al limite del banale, ma questo è lo stile di De Carlo, ciò che mi aspetto quando compro un suo romanzo.


Indicazioni terapeutiche: per chi ama De Carlo.


Effetti collaterali: seguire l'istinto, cedere la passione, rompere gli schemi. Sono scelte che nella realtà non pagano mai, o quasi. Ma nei libri accade. Per questo leggiamo. Perché la letteratura ci regala un posto nel quale  rifugiarci quando siamo stanchi, quando abbiamo bisogno di continuare a credere che, a volte, l'impossibile sia possibile.




mercoledì 21 giugno 2017

I baci non sono mai troppi di Raquel Martos

D'estate leggo di più. La luce bianca che avvolge come un sudario ogni cosa, l'afa che scoraggia ogni movimento, il tempo che si dilata sotto il sole cocente. Il mio unico desiderio diventa quello di sdraiarmi con la testa bene all'ombra e le gambe baciate dai raggi solari e chiudermi nella mia bolla di solitudine.
Non che esistano libri più indicati per la bella stagione, ma io, quando le giornate si allungano, i capelli si schiariscono e la pelle si fa ambrata, prediligo i romanzi a impronta femminile, le storie scritte da donne che parlano di donne.
I baci non sono mai troppi di Raquel Martos appartiene a questa categoria.

Nella vita perdiamo tempo come se fosse gratis, come se lo regalassero, dimenticando che prima o poi dovremo restituirlo. Se contassimo tutti i minuti in cui siamo coscienti del fatto che ciò che stiamo facendo è unico, per quanto sembri banale e quotidiano, quanti giorni pensi che otterremmo nel corso di tutta la vita?

Può un'amicizia sconfiggere ogni invidia e gelosia? Può durare tutta la vita?
Eva è una bambina bionda e timida di sette anni quando un giorno a scuola arriva una nuova alunna, Lucia, mora con la frangia e il caschetto che la fanno sembrare una piccola adulta, risoluta e pronta a dare battaglia alla vita a testa alta.
Insieme affronteranno le insicurezze e le gioie del diventare grandi: le lunghe vacanze estive, i primi flirt, l'università, l'amore, i primi passi nel mondo del lavoro.

I baci non sono mai troppi: non si esauriscono e non ne abbiamo una riserva limitata. Si può sempre darne altri.
La storia è narrata dalle due voci delle protagoniste che si incontrano per caso un giorno in aeroporto, dopo un allontanamento a causa di un litigio. Lucia è ormai una donna in carriera che ha sacrificato l'idea della famiglia per inseguire il successo. Eva si barcamena tra la figlia Lola di cinque anni e un matrimonio ormai agli sgoccioli. Giunte entrambe ad un bivio, sapranno riprendersi per mano e riscoprirsi più unite che mai.
Il romanzo d'esordio di Raquel Martos non è certo un capolavoro, ma una lettura piacevole in cui ogni lettrice può intravedere frammenti della propria vita. Un romanzo sui buoni sentimenti, che come i baci non sono mai abbastanza.


Indicazioni terapeutiche: per chi ha avuto un'amica del cuore.

Effetti collaterali: Totò diceva che la felicità è fatta di attimi dimenticanza. Questo romanzo afferma esattamente il contrario: la felicità è figlia della banalità, una ricetta dai semplici ingredienti. Il calore della famiglia. Le risate tra amiche. Una mamma che versa il caffelatte da una tazza all'altra per farlo raffreddare.


mercoledì 14 giugno 2017

L'imperfetta meraviglia di Andrea De Carlo

Andrea De Carlo è uno dei miei scrittori preferiti. Lo è da quando adolescente, mi persi tra le pagine di Due di Due, rapita dalla sua capacità di pennellare personaggi complessi e mai banali, di scandagliare le emozioni, i sentimenti, gli stati d'animo in maniera chirurgica.
L'imperfetta meraviglia rievoca, anche se in maniera depotenziata rispetto ai romanzi precedenti, la magia di un incontro tra i due protagonisti, Milena Migliari, gelataia alla ricerca del gusto "perfetto", e Nick Cruickshank, leader di una famosa rock-band che vive sull'onda dei successi passati.

"Perché la meraviglia è imperfetta?" Lui la fissa, in attesa. Lei si chiede se dovrebbe cercare una risposta accurata, o cavarsela con una battuta; alla fine parla senza riflettere. "Perché non dura."

Cosa hanno in comune?
All'apparenza niente, se non il ritrovarsi nello stesso luogo nello stesso momento.
Ma scavando sotto la scorza della superficie, si ritrova la solita irrequietezza di fondo, la sensazione di alterità costante, di essere sempre "altro" rispetto a chi li circonda, il bisogno urgente di essere "altrove".
Due perfetti sconosciuti che, dopo aver girovagato incapaci di trovare una propria dimensione, un luogo da poter chiamare casa, hanno deciso di fermarsi, almeno temporaneamente, in un piccolo paesino della Provenza.
Due perfetti sconosciuti intrappolati nei percorsi intrapresi, incapaci di quello scatto vitale che potrebbe permettere loro di riprendere in mano la propria esistenza. Milena bloccata al bivio se diventare madre o no, Nick che si immola al terzo matrimonio come un condannato a morte aspetta la sua pena.
Entrambi in balia dei dubbi e delle inquietudini interiori, come foglie trasportate dalla corrente. Senza slanci, senza convinzione. Una vita ridotta alle occasioni mancate, in cui ciò a cui stanno rinunciando pesa di più di quello che stanno consapevolmente scegliendo.


Tutto quello che puoi fare è metterti in sintonia, stare in ascolto dei segnali e quando arrivano seguirli, come potresti seguire un sentiero attraverso la giungla; solo che questo sentiero si forma mentre ci cammini sopra, passo dopo passo. Non serve consultare bussole, né studiare mappe, né decidere itinerari: l'itinerario è lì, sotto i tuoi piedi.

Ma può un incontro sovvertire l'ordine precostituito?
No.
O meglio non è l'incontro in sé, ma il turbamento che provoca, lo spostamento della scala di valori, di propositi, di obiettivi. Non sono mai i cambiamenti clamorosi a dare un risultato interessante: sono le piccole deviazioni dalla norma, i tocchi che potrebbero essere quasi inavvertibili e invece si sentono.
Non servono le razionalizzazioni a posteriori. Non serve continuare a fuggire, giustificarsi, negare l'evidente, nel vano tentativo di accettare disperatamente ciò che si è diventati e smettere di rincorrere cos'altro si sarebbe potuto essere. Quanto vogliamo quello che vogliamo è il frutto delle circostanze o di una nostra ricerca interiore?

Forse il problema è che lei non è una persona normale: che è fondamentalmente una disadattata, con la testa piena di idee che non collimano mai con il mondo reale. e il mondo reale se ne accorge, e le manda una bastonata sulla testa appena può, per ricordarle chi è il più forte; oppure cerca di chiuderle qualche muro intorno, di bloccarle la porta quando lei avrebbe l'istinto di scappare fuori a respirare l'aria libera e guardare il cielo.
Andrea De Carlo ripercorre uno dei temi a lui più cari, quello della capacità di prendere in mano la propria vita, la corrispondenza o discrepanza tra quello che si vorrebbe o potrebbe essere e quello che si è. Da una parte coloro che riescono a mettere a frutto il proprio potenziale, dall'altro quelli che rimangono schiacciati dalle circostanze. La differenza sta tutta lì.

Indicazioni terapeutiche: per chi sente sempre un pesce fuor d'acqua.

Effetti collaterali: Milena accompagna le vaschette di gelato che vende con bigliettini con le frasi che la colpiscono. Una è un aforisma famoso di Oscar Wilde: «La vita è troppo breve per sprecarla nei sogni altrui».
Pensare prima ai propri bisogni non è egoismo, è amor proprio.
Sprecare la propria esistenza ad accontentare gli altri non è altruismo, è mancanza di coraggio.



venerdì 26 maggio 2017

Margherita Dolcevita di Stefano Benni

Qualche chilo in più, un cuore che fa ta-tunf-tatà e un'assoluta capacità di osservare il mondo. 
Margherita Dolcevita è una ragazzina arguta e fuori dagli schemi, che abita con la sua famiglia, altrettanto strampalata, al confine tra città e campagna. C'è il nonno Socrate, che balla il tango con un fantasma, il fratello Clemente, adolescente fissato con il calcio e il sesso, Eraclito, il fratello minore genialoide, la mamma fissata con le telenovelas, il babbo con il suo ridicolo riportino. E poi Pisolo, il cane brutto ma buono.
Una famiglia sui generis il cui equilibrio viene spezzato dall'arrivo dei nuovi vicini, i Del Bene. 
Un bel giorno si materializza infatti un enorme cartellone ad oscurare le stelle ed eccolo là: un enorme cubo nero sorge dove prima c'erano solo campi.
I Del Bene stanno alla famiglia di Margherita quanto il sole sta alla luna: ricchi, iper-tecnologici, incuranti dell'ambiente e degli altri, pronti a schiacciare il diverso e il fastidioso.

I Del Bene stavano cercando di contagiarci con l'arma batteriologica del secolo: il tedio. Quella che ti convince che aspettare di vivere è meno faticoso che vivere.

Anche se pubblicato nel 2005 questo romanzo è, purtroppo, ancora molto attuale: la protagonista assiste inerme al disfacimento della sua famiglia, soggiogata dal fascino della tecnologia, della bella vita, dalla necessità di apparire più che di essere. Solo Margherita è immune al malefico influsso dei nuovi vicini e decide di indagare per scoprire cosa si nasconda dietro quella facciata esplicitamente fasulla.

Tutto il dolore del mondo si è seduto sul mio letto.

Margherita Dolcevita è una favola che mischia ecologia, ironia, coraggio e tolleranza. Una critica esplicita alla società dei consumi, alla cementificazione, all'omologazione, al razzismo.
Ma c'è molto di più.
Nascosto dietro l'umorismo, c'è una forma di poeticità immediata, nascosta in alcune espressioni, frasi, immagini. Una retorica della vita quotidiana che colpisce e spinge a riflettere. Un balsamo dell'anima che rende più facile ingollare i soprusi e le ingiustizie, come una pomata al mentolo che lenisce un po' il dolore ma non lo fa sparire del tutto.

Oppure, proprio perché simo piccola cosa, dobbiamo combattere per la nostra briciola di giustizia, o le stelle crolleranno?

Il finale volutamente ambiguo ha suscitato molte critiche. L'autore è stato volutamente criptico?
Io credo di sì. Credo sia il compito della letteratura incoraggiare i lettori ad interrogarsi, a dare una propria interpretazione, a riempire i non-detti.
Stefano Benni, a mio avviso, ci riesce.
Margherita Dolcevita sci lasca una grande lezione: era inutile lamentarsi, bisognava lottare. Se ti arrendi a quattordici anni, ti abituerai a farlo tutta la vita.

Indicazioni terapeutiche: per chi si inventa i nomi delle stelle, per chi ha un amico immaginario segreto, per chi tanta vita dentro che la morte, anche volendo, non potrebbe entrare.

Effetti collaterali: Io credo che esisteranno sempre l'intelligenza, la voglia di libertà, l'eros e le sale da ballo - ha detto il nonno - ma la speranza non mi sento più di pronunciarla.
È questo il pericolo più grande. Storditi dal tam-tam della pubblicità e dei social network,  affogati da un'iper-informazione che deforma più che informare, sempre più poveri, stanchi, intolleranti ci abbandoniamo, come pesci trascinati dalla corrente, e smettiamo di lottare. Di credere. E, peggio ancora, di sperare di poter fare la differenza.



mercoledì 24 maggio 2017

Forse un mattino andando in un'aria di vetro di Eugenio Montale

Forse un mattino andando in un'aria di vetro 

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


Un'epifania, una scoperta che colpisce l'io lirico all'improvviso, un "miracolo" che dura quanto un battito d'ali: la presa di coscienza del vuoto, del nulla,  dell'assurdità dell'essere e della natura apparente del mondo. Tutto ciò di cui l'uomo fa infatti conoscenza non è che un inganno, ma non per questo è meno reale.

Ma è solo un momento, uno smarrimento fugace, come un velo che si discosta per poco per poi tornare a coprire, con la sua natura illusoria, l'assenza di un senso profondo.

L'io poetante, dopo questa straordinaria esperienza, è costretto a portare dentro di Sé questa nuova consapevolezza, prigioniero del silenzio, senza poter più tornare alla condizione abituale degli "uomini che non si voltano". Il suo sentire e la conoscenza che ne è derivata si sono trasformate nella peggiore delle condanne.



mercoledì 10 maggio 2017

La più amata di Teresa Ciabatti


Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre.

Sta in queste poche righe l'essenza del romanzo, La più amata, un libro fortemente autobiografico nel quale la scrittrice Teresa ripercorre la sua infanzia, dominata dalla figura del padre, il Professor Ciabatti, primario di chirurgia dell'ospedale di Orbetello.
Ma chi era veramente Lorenzo Ciabatti?
Un luminare, un benefattore come lo ricorda la gente? O un uomo freddo e calcolatore, un massone?
Teresa Ciabatti scava nel suo passato, assemblando i ricordi come pezzi incompleti di un puzzle fino a delineare un quadro familiare atipico: un padre ingombrante amatissimo ma distante, una madre, Francesca Fabiani, fragile e incapace di tenere testa al marito, un fratello gemello, quasi inconsistente.

Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento. 
La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista: la cocca del babbo, la capricciosa bambina che nuota nella piscina della villa hollywoodiana al Pozzarello, la principessa del reparto che si fa viziare dai giovani medici ansiosi di mettersi in mostra. Una piccola diva prepotente per la quale il mondo non è mai abbastanza.
Fino almeno al compimento dei suoi dieci anni: ingrassa, imbruttisce, i genitori si separano, si trasferisce a Roma con la madre. Non è più l'invidiata figlia del Professore, svaniti i sogni di celebrità e gli scenari da film. Svanita anche l'enorme ricchezza dei Ciabatti, come inghiottita da un mostro mitologico.


Mi dispiace, Professore, tua figlia fa quello che vuole lei, non quello che dici tu. L’unica al mondo a non fare quello che dici tu.

Dal presente, una Teresa presuntuosa e sprezzante, madre anaffettiva che delega le cure della figlia alla tata moldava, si interroga sulla sua incapacità di amare, sul suo essere, a quarantaquattro anni, una donna incompiuta e incapace. Di non meritare il successo che ha avuto.
Non sono d'accordo.
La più amata è sicuramente un libro che divide, che fa discutere, che colpisce o delude. Un libro sulla famiglia, sulle crepe che ci lascia,  su come la vita sia una continua altalena tra illusione e disillusione. Un modo di scrivere spietato e aspro, al limite dello spiacevole, che gli è valso la candidatura come finalista al Premio Strega.

I critici l'hanno catalogato come autofiction, termine utilizzato per definire alcuni romanzi a metà appunto fra autobiografia e finzione, fra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e loro palese distorsione romanzesca. 
Il lettore è spiazzato:  non sa dove inizi la realtà e finisca la storia, nel dipanarsi di questo racconto scomodo che travalica il privato, tratteggiando un'Italia corrotta e corruttibile, affascinante e marcia allo stesso tempo.
Se il personaggio di Teresa Ciabatti sia piacevole o no, alla fine poco importa. Perché anche se snob, arrogante, cattiva con gli altri, e soprattutto con sé stessa, è stata capace di dare alla luce un libro coraggioso, capace di sfidare il timore del giudizio altrui senza alcuna remora.


Indicazioni terapeutiche: per chi è inclemente con sé stesso.

Effetti collaterali: in un'intervista l'autrice ha dichiarato: "Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire."
Forse diventare adulti significa soprattutto questo. Smettere di cercare un colpevole. Perdonare i propri genitori per non essere stati quello di cui avevamo bisogno. Perdonarsi per non essere stati abbastanza.


giovedì 4 maggio 2017

Requiem per un 'ombra di Mario Pistacchio e Laura Toffanello

Cercavo un libro diverso. E Requiem per un'ombra lo è.
Un noir che non parla solo di delitti e indagini, ma che fa riflettere sul senso profondo della vita, un inno alla libertà, pagata tuttavia a caro prezzo, quello della solitudine.

Al centro dell'intreccio narrativo c'è il protagonista, Sal Puglise, un investigatore privato prossimo alla pensione, un uomo a cui la vita ha assestato troppi colpi, un po' Marlowe, un po' detective all'italiana, che tra un pedinamento e un pestaggio, si rifugia nelle quattro chiacchiere con l'amico barista di sempre, un modo come un altro per fuggire l'isolamento e la malinconia sempre in agguato.
Lontani ormai i giorni di gloria, Sal è deciso a ritirarsi, magari in un paradiso ai Caraibi, il miraggio di una pace lontana e agognata. Per farlo ha bisogno però di un ultimo caso. Ed ecco che la sorte gli serve sul piatto d'argento l'occasione giusta: una rapina finita male.
Un gioco da ragazzi, almeno all'apparenza.


"Sai cosa dicono? Dicono che senza essersi mai viste, due persone consanguinee possano riconoscersi perfino in mezzo a una folla." Si era interrotta, nel telefono l’aveva sentita respirare a fondo. "Devi promettermi che non succederà. Non voglio che anche lei si innamori di te."

Mario Pistacchio e Laura Toffanello ci conducono mano nella mano, sulle note struggenti del jazz (del quale, mea culpa, non sono conoscitrice), nella pancia di un libro sulle illusioni e sul desiderio di riscatto che coinvolge e ti segue, anche dopo che l'hai chiuso.
È pur vero che la trama prosegue senza troppi scossoni, e che il personaggio principale ricalca il cliché del detective ruvido e solitario, ma non ho potuto non apprezzare le atmosfere di questo romanzo: una Torino fredda, un universo di individui imprigionati nel proprio senso di sconfitta, un intreccio di storie che denuncia la bassezza e l'egoismo imperanti. Su tutti spicca Sal, con la sua etica vecchio stile, la sua lucidità, la consapevolezza che non sconfina nell'autocommiserazione.
Il finale mi ha colpito. Non so ancora dire se in ben o in male.
Ma se cercate la redenzione questo romanzo non fa per voi.

Indicazioni terapeutiche: per chi ama il jazz, i pappagalli e i vecchi detective stropicciati.

Effetti collaterali: da animalista quale sono, mi è rimasto nel cuore, Orso, l'incrocio cane-lupo recluso al canile, alter ego di Sal, vecchio e spelacchiato, rassegnato ormai ad aspettare la morte.  Un animale in gabbia da una parte, un uomo prigioniero del proprio passato che aspira solo ad una seconda occasione.
Soltanto che talvolta non ci sono seconde chance.

giovedì 16 marzo 2017

Le due metà del mondo di Marta Morotti


Le due metà del mondo è un romanzo d'esordio insolito, lo apri con un'idea ma ben presto ti accorgi che la storia ti sta portando in tutt'altra direzione.
Maria ha diciannove anni e ha appena finito gli esami di maturità. Vorrebbe frequentare la facoltà di psicologia ma non può: andrà a lavorare in fabbrica come suo padre. La sua famiglia ha bisogno di lei.

Mi ero avvicinata piano e lo avevo toccato con un dito. Mia madre mi disse che bisognava stare molto attenti che non si facesse male. In quel momento capii che era tutto diverso. Nessun aspetto della nostra vita sarebbe tornato a essere come prima che lui nascesse.

La vita di Maria ha un prima e un dopo. Nel mezzo la nascita di un fratello con un ritardo mentale, Omar.
Niente è stato più come prima.
L'arrivo di quel bambino"diverso" si abbattuto come uno tsunami sulla serenità di Maria e dei suoi genitori: addio ai giochi, alle risate, ai progetti, alle speranze. Sembrano lontani i tempi in cui Alfio e Lucia lasciarono la loro amata Sicilia per inseguire un futuro migliore. I tempi in cui il domani era una promessa continua.  La loro casa è ormai abitata solo da silenzi e lacrime versate di nascosto.

Non sapeva ancora quanto fosse dura abbandonare chi si ama per rincorrere una vita tranquilla e dignitosa, ma sentiva il rumore dei sentimenti che si schiantano l'uno contro l'altro. Le facevano paura.

Maria, incapace di reggere il peso di tanta pressione, si chiude in un mondo tutto suo. Un universo solitario dove può entrare solo Salvatore, il suo migliore amico, capace di starle accanto senza giudicarla.
È proprio il giudizio altrui che pesa come un macigno: pazza. Ecco cosa pensa la gente. Maria sa che la colpa è di Omar, quel fratello che la segue come un'ombra. Lo odia. E lo ama.
Ma come può lasciarsi dietro quel peso così ingombrante e abbandonarsi ad una nuova vita smettendo di nascondersi?


Non si può perdere tempo a guardarsi indietro. Io l'ho fatto e lo faccio ancora, ma per me ormai è troppo tardi per cambiare. Maria, invece, deve lanciare il suo sguardo altrove, in un futuro possibile. Deve farsi travolgere e sconvolgere da quello che  intorno, da quello che fa parte della sua vita.

Marta Morotti racconta con la maestria il  senso di inadeguatezza della protagonista, la sua incapacità di stabilire delle sane relazioni sociali, di trovare il proprio spazio nel mondo. Il risultato è un romanzo amaro e malinconico che mira a toccare le corde del cuore del lettore.

Le due metà del mondo è un libro che parla di malattia, di dolore, di solitudine. Ma è soprattutto una grande storia di coraggio che ha per protagoniste due donne: Maria e sua madre Lucia. Due figure femminili costrette sulla riva opposta del fiume ma che scopriranno, nonostante tutto, un modo per ritrovarsi, per abbattere l'insormontabile muro di dolore e andare avanti.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede che  il dolore è una prigione da cui si può fuggire.

Effetti collaterali: A volte ci attacchiamo a desideri irrealizzabili perché è più semplice. Sognare sogni impossibili non costa nulla. La vera sfida è uscire dal proprio guscio, dalla propria comfort zone, trasformare le aspirazioni in progetti.
La realtà è la più spaventosa delle avventure possibili.




venerdì 10 marzo 2017

Magari domani resto di Lorenzo Marone

Luce Di Notte.
Più che a un personaggio fa pensare ad un'ossimoro vivente.
Ed è così che appare la protagonista dell'ultimo romanzo di Lorenzo Marone. Contraddittoria, idealista, in perenne lotta con un passato che le ha giocato troppo brutti scherzi e un presente avaro di prospettive.
Luce che sembra destinata a collezionare soltanto insuccessi: un lavoro di avvocato insoddisfacente, una madre bigotta che non la capisce, un amore finito. Ma che non ci sta a rassegnarsi, ad uniformarsi, a seguire la corrente.

Mi stanno sulle palle quelli che credono di aver compreso come gira il mondo. Io non so se andare o restare, cosa sia meglio per me, e solo per me, di certo non credo che chi resti, chi tenti di aggiustare le cose, chi si fa il mazzo tutti i giorni per cambiare il proprio piccolo pezzettino di mondo sia meno coraggioso di chi manda tutto all’aria! 

Sarà l'inaspettata amicizia con Kevin, un bambino saggio, unita alla presenza del vicino Vittorio e alle attenzioni del Cane Superiore Alleria a riconciliarla con sé stessa.
Capirà infatti che non serve scappare, che non occorre inseguire chissà quali sogni di gloria, che, talvolta, è tutto nascosto in un gruppo di persone sedute intorno ad un tavolo, che si sono scelte e continuano a farlo giorno dopo giorno.
Come direbbe Kevin non so come dire... qui è come se ci fosse tutto quello che ci deve essere.


Non le chiamerei semplicemente abitudini, ma un modo per rendere il cielo sopra di noi meno imponente, per sentire di avere un posto dove bastano i nostri soliti piccoli gesti quotidiani a far funzionare le cose. Essere abitudinari non è poi così da sfigati. I bambini sono abitudinari. E i cani. Il meglio che c'è in giro. 


Magari domani resto è un libro ironico e malinconico, di una dolcezza inaspettata che ti conquista pagina dopo pagina. Un inno alle famiglie speciali, ai piccoli gesti quotidiani, alle abitudini, alla fiducia in sé stessi. A Napoli.
Oserei dire che questo romanzo è la quintessenza della napoletanità. Quella buona, quella che resiste. Come l'erba tra le crepe dell'asfalto. Quella dei Quartieri Spagnoli, del bucato steso alle finestre, del dialetto che strappa un sorriso.
Quella fatta dalle persone che non si arrendono, che convivono con il male accanto rimanendone immuni.  
Quella dei veri ribelli che hanno imparato a non abbassare mai gli occhi.


Indicazioni terapeutiche: per chi sceglie di andare, per chi sceglie di restare.

Effetti collaterali: Non esiste nessuna ricetta della felicità precostituita: non si può scegliere a priori se sia meglio partire o restare. Non è il luogo dove viviamo che ci definisce in quanto individui. Si tratta di scegliere tra lottare o fuggire, tra impegnarsi o lasciarsi trasportare dalla corrente. La forza la si dimostra affrontando le difficoltà di tutti i giorni, inseguendo un obiettivo e, perché no, talvolta fallendo.
Sempre fedeli a sé stessi, sempre liberi e allegri.
E curiosi. Perché la curiosità non è altro che una forma di coraggio.