mercoledì 3 ottobre 2018

La vita fino a te di Matteo Bussola

Premetto che pur non conoscendolo personalmente, Matteo Bussola mi è piaciuto fin da subito. Da quando ho iniziato a leggere i suoi primi post, prima che diventassero virali, fino a  trasformarlo in un personaggio pubblico prima, e in uno scrittore poi. O meglio, probabilmente uno scrittore lo era sempre stato, ma è come sbocciato grazie al successo incontrato sui social network.
Ancora oggi continua a condividere i suoi pensieri, le sue esperienze e riflessioni su piattaforme come Facebook, come milioni di altre persone del resto. Ciò che fa la differenza è la sua indiscutibile capacità di raccontare il vissuto quotidiano con uno sguardo capace di scorgere ciò che ai più rimane celato. Di scandagliare l'animo umano, mettendolo a nudo in tutte le sue sfaccettature. Di trasformare l'ordinario in straordinario, come l'artista che scorge la poesia in un umile filo d'erba.
Al centro del suo ultimo libro,  La vita fino a te, che in realtà più che è un romanzo è una raccolta di aneddoti e considerazioni, c'è l'amore in tutte le sue forme. O meglio ci sono le relazioni con l’altro.  Perché cos'è l’amore se non prima di tutto una forma di sguardo sull’altro?


Ti accorgi che l'unica sabbia che conta è quella che scorre nella clessidra dei giorni, le orme più belle quelle che testimoniano la strada fino a qui, il cammino insieme che abbiamo scelto, perciò viva i giardini vissuti, la merda che contiene più verità di molto altro, i cani che ti saltano in braccio sporchi di terra o che si sdraiano al sole, per tutto il resto ci sarà tempo di sicuro e quando non ci sarà: pace, avremo pavimenti meno impeccabili e maglioni pieni di peli e forse inciamperemo ogni tanto nelle buche, ma sapremo comunque di non aver rinunciato alla parte migliore di quello che c'è.

Attraverso il racconto di episodi di vita quotidiana l'autore si racconta, partendo dal proprio passato, per tracciare un ipotetico cammino a ritroso che lo ha portato fino a Paola, la sua attuale compagna con la quale ha avuto tre bambine. Un percorso che non è stato né rettilineo né facile. Un viaggio che ha avuto come punto di partenza l'accettazione delle rispettive differenze, che si è alimentato della voglia di conoscersi e "spostarsi da sé stessi", per approdare alla fine alla consapevolezza che ogni relazione duratura si fonda su un’accoglienza incondizionata.
Una strada irta di ostacoli in cui è facile smarrirsi, perdendo di vista non solo l'altro ma perfino sé stessi. Perché la paura di sbagliare, di restare, di rimanere ingabbiati è sempre in agguato. La verità è che, come sostiene Bussola, siamo convinti di sapere quello di cui abbiamo bisogno, ma a volte invece la vita è più intelligente di noi, e così ci dona non ciò che vorremmo ma ciò che ci serve per crescere, non importa quanto questo possa essere talvolta doloroso o frustrante.

Ogni vita è una specie di iceberg narrativo di cui gli altri scorgono solo la parte visibile, mentre tre quarti se ne stanno nascosti sotto il pelo dell'acqua e non se ne accorge mai nessuno a volte non te ne accorgi nemmeno tu. [...] L'importante è non credere nemmeno per un istante che quel che vedono gli altri, nel bene o nel male, sia tutto quello che sei, e non credere che quel invece gli altri non vedono valga meno, soltanto perché non lo vedono. Non è importante se nessuno lo vede, o se lo vedono in pochi, tu quella parte rispettala, difendila, sentila, proprio come l'aria che ti entra nei polmoni ogni giorno, ogni secondo, che nessuno vede nemmeno quella, così come non vedranno mai il tuo stomaco, o il tuo fegato, o i battiti del tuo cuore, mentre sono proprio questi a tenerti in vita.

La lezione di Matteo Bussola è in fondo di una semplicità disarmante: se si è pronti a mettersi in gioco, ad accantonare le proprie insicurezze, accogliendo la diversità altrui, l'amore diventa non una possibilità ma LA POSSBILITÀ, non dico di essere migliori, ma di vivere una vita piena e densa di significato. 
Indispensabile diventa allora la presa di coscienza che non è possibile fondare l'amore sul bisogno, ma, al contrario, occorrerebbe fondare il bisogno sull'amore. Che l'amore che salva non è un mai un approdo ma solo un punto di partenza. Che, come afferma l'autore, l'amore non ci completa ma ci comincia. 


Indicazioni terapeutiche: per chi non è ancora stanco di cercare il buono nel mondo.

Effetti collaterali: i sentimenti non dovrebbero mai diventare un'arma di ricatto. Non bisognerebbe mai urlarsi "sei cambiato" o "non sei più quello di prima" o chiedere al proprio partner di rinunciare a qualcosa, ad un hobby, un lavoro, un'amicizia, un sogno. Non bisognerebbe soprattutto mai chiedere a qualcuno di rinunciare alla necessità di restare fedeli a se stessi, come se si trattasse di una sorta di affronto alla propria relazione.


giovedì 27 settembre 2018

Le assaggiatrici di Rosella Postorino

La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana.
È l'autunno del '43 quando Rosa Bauer fugge da Berlino per rifugiarsi a casa dei suoceri, nel villaggio di Gross-Partsch, vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale dove Hitler si è nascosto. Suo marito Gregor è lontano, a combattere sul fronte orientale russo.
Insieme ad altre nove donne, Rosa, viene reclutata come "assaggiatrice": è una cavia, selezionata come la altre per testare le pietanze destinate al Führer, al fine di scongiurare potenziali avvelenamenti. Chiuse tra le pareti di una caserma e sotto la minaccia continua del controllo delle SS, tra il gruppo di donne si svilupperà una sorta di legame carnale, un'amicizia dettata più dalla paura e dalla necessità, che non da una volontà consapevole. In particolar modo, Rosa rimarrà affascinata da Elfriede, dal suo carattere spigoloso, dalla sua lingua tagliente, dai segreti che riesce a celare e a scorgere fissando le persone negli occhi.
Quella di Rosa diventa una vita per il Führer, che pure lei ha imparato ad odiare. Un'esistenza dominata dalla paura, dal senso di colpa, dalla mancanza. Un'esistenza che la porta a mettere in discussione tutto ciò in cui credeva, maturando la consapevolezza di quanto la vita umana abbia ben poco valore. Come si fa a dare valore a una cosa che può finire in qualsiasi momento, una cosa così fragile? Si dà valore a ciò che ha forza, e la vita non ne ha; a ciò che è indistruttibile, e la vita non lo è. Tant’è vero che può arrivare qualcuno a chiederti di sacrificarla, la tua vita, per qualcosa che ha più forza. La patria, per esempio.

Per anni ho creduto fossero stati i suoi segreti- i segreti che non poteva confessare, che non volevo ascoltare -a impedirmi di amarlo davvero. Era una stupidaggine. Di mio marito non sapevo molto di più. Avevamo vissuto appena un anno sotto lo stesso tetto, poi lui era partito per la guerra: no che non lo conoscevo. Del resto, l'amore accade proprio tra sconosciuti, fra estranei impazienti di forzare il confine. Accade fra persone che si fanno paura.

Non c'è in Rossella Postorino nessuno giudizio: la sopravvivenza ha avuto la meglio sulla morale. Quelle descritta dalla scrittrice è un'umanità mutilata, spezzata, profanata. Rosa è una donna che è scesa a patti con la propria coscienza, ma ne ha pagato caro il prezzo. L'impossibilità di dimenticare, di lasciarsi tutto alle spalle. Non racconterà mai nessuno quello che ha vissuto alla mensa di Krausendorf, delle persone con cui ha condiviso per mesi ogni pasto, dei sensi di colpa che la schiacciano senza abbandonarla mai.
Certi ricordi sono come fantasmi,  destinati ad abitare l'animo umano per sempre. Si sopravvive ma non si è più gli stessi, prigionieri dei propri segreti, si diventa inaccessibili, incapaci di aprirsi agli altri e tornare ad amare di nuovo. Ma d'altronde come è possibile volersi bene nell'inganno?

Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli.


L'autrice di questo romanzo si è ispirata alla storia vera di Margot Wölk, morta pochi anni fa ultranovantenne, che, ricordando i suoi tempi da assaggiatrice, ammette come ogni volta dopo un pasto scoppiasse in in un pianto liberatorio, perché significava che era ancora viva. Ma, a scanso di equivoci, è giusto sottolineare come Le assaggiatrici non sia romanzo storico né ambisca ad esserlo: la vicenda storica è solo un punto di partenza per una riflessione più ampia.
Il cibo si trasforma nel filo conduttore di un'ossessione che accompagnerà la protagonista per il resto della vita, un amore-odio viscerale. Mangiare significava nutrirsi e quindi sopravvivere, ma allo stesso tempo ciò implicava tenere in vita Hitler e il suo regime. Servire la causa. In realtà né Rosa né le altre sue compagne hanno avuto mai scelta. Non sono mai state molto di più di gruppo di donne chiuse in una mensa, braccate come un branco di animali al macello dal sentore costante della morte, senza alcuna possibilità di sottrarsi al loro angoscioso destino.
O forse no. Forse Rosa avrebbe potuto decidere da che parte stare. Come Elfriede. Scegliere di non rinnegare sé stessa, anche a costo della propria vita.


Indicazioni terapeutiche: per chi vuole scoprire quale sia il prezzo della sopravvivenza.

Effetti collaterali: molti potrebbero trovare fuori luogo la voglia di Rosa di amare, di essere desiderata, accolta. Io no. Non l'ho trovato un espediente narrativo slegato dal testo ma funzionale alla storia. Nonostante sia cosciente di vivere in un'epoca amputata, di non avere nessun diritto di parlare d'amore, vi è in lei una parte che brama di essere desiderata, di fremere, di sentirsi viva nonostante intorno a lei vi sia soltanto violenza e morte. Una parte disposta a sacrificare tutto pur di essere qualcosa di più di uno stomaco da riempire, di un pezzo di carne vittima di un ingranaggio infinitamente più grande e terribile di lei.

venerdì 21 settembre 2018

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman


Si può palare di alienazione e dolore strappando un sorriso?
Sembra un'impresa possibile ma Gail Honeyman ci riesce, dando vita ad un personaggio capace di entrare in punte di piedi nell'animo di chi legge, a volte indisponendo, altre suscitando tenerezza. Eleanor Oliphant è la protagonista di questo libro, una sorta di favola moderna che ci restituisce un po' di sano ottimismo e, perché no, di fiducia nel mondo.

Se qualcuno ti chiede come stai, si aspetta che tu risponda BENE. Non devi dire che la sera prima ti sei addormentata piangendo perché erano due giorni di fila che non parlavi con un’altra persona. Devi dire: BENE. [...] Ai giorni nostri la solitudine è il nuovo cancro, una cosa vergognosa e imbarazzante, così spaventosa che non si osa nominarla: gli altri non vogliono sentire pronunciare questa parola ad alta voce per timore di esserne contagiati a loro volta, o che ciò possa indurre il destino a infliggere loro il medesimo orrore.

Ma chi è Eleanor Oliphant? È la collega scostante che nessuno vorrebbe, la vicina solitaria che parla con le piante, la tipa stramba da tenere a distanza, che dice sempre la battuta fuori-luogo e non sembra curarsi delle comuni norme della civile convivenza. Una ragazza anonima e asociale, destinata a vivere ai margini delle vite altrui.
Eppure la protagonista di questo romanzo non sembra, almeno in apparenza, risentire dello strano isolamento in cui si è auto-confinata: ha una casa, un lavoro, un tranquillo tran-tran impermeabile al mondo esterno.  A lavoro dal lunedì a venerdì, i lunghi weekend trascorsi chiusa in casa, in compagnia di qualche bottiglia di alcol e cibo scadente take-away. Mai uno sgarro. Un'unica strada dritta da percorrere in completa solitudine.
Eleanor Oliphant non ha bisogno di niente. Sta benissimo.
O forse no?
Forse dietro la facciata di stravagante normalità si nasconde l'orrore di un trauma infantile troppo da grande da elaborare, troppo spaventoso da condividere, qualcosa di così devastante che può soltanto essere sepolto nell'angolo più buio e nascosto del proprio animo.


Io ero Eleanor, la piccola, triste Eleanor Oliphant, con il mio lavoro patetico, la mia vodka e le mie cene da sola, e lo sarei sempre stata. Niente e nessuno – e certamente non quel cantante, che si stava sistemando i capelli durante l’assolo di chitarra di un altro membro della band – avrebbe potuto cambiare le cose. Non c’era speranza, le cose non si potevano riparare. Io non potevo essere riparata. Al passato non si poteva sfuggire, né lo si poteva disfare.

Gail Honeyman costruisce una storia di redenzione, sul potere salvifico dell'amicizia e sulla possibilità di scendere a patti con le proprie ferite. Nessuno si salva da solo, ma ciascuno di noi, se riceve l'aiuto di una mano tesa, può sbocciare, rifiorire, non certo diventando perfetto, ma accettando le proprie imperfezioni.
Eleanor Oliphant sta benissimo è un romanzo costruito con sagacia e intelligenza, in cui l'ironia diventa la chiave per affrontare un passato oscuro e un presente grigio. Anche se non siamo in presenza di un capolavoro non importa perché Eleanor è un personaggio capace di farsi amare, nonostante l'antipatia iniziale e tutte le sue idiosincrasie, e soprattutto in grado di restituirci un po' di sana speranza. E per una volta il lieto fine è la giusta ricompensa.


Indicazioni terapeutiche: per i solitari, i misantropi, i cinici, perché si ricredano e non smettano mai di coltivare la speranza di una felicità inattesa.

Effetti collaterali: Richard Bach affermava che siamo tutti impostori in questo mondo, poiché facciamo tutti finta di essere qualcosa che non siamo. Eleanor Oliphant è diversa: come lei, sono poche le persone che non sono in grado di dissimulare, di adeguarsi con un sorriso forzato. Tanto che a volte la solitudine auto-imposta sembra la scelta migliore, quella che mette al riparo da un gran numero di ferite inutili. In realtà la storia di Eleanor ci dimostra l'esatto contrario: c'è sempre una via, un modo di essere che coniughi la fedeltà a se stessi con la possibilità di amare ed essere riamati.


lunedì 17 settembre 2018

Il barone rampante di Italo Calvino

È sempre difficile analizzare un classico, quasi avventato, perché c'è sempre in agguato il pericolo di cadere nel banale, di ricalcare quello che altri hanno già detto, magari anche in un modo migliore. Tuttavia ho decido di correre il rischio, per parlare di quanto questo celeberrimo romanzo, che ho deciso di rileggere a distanza di anni, mi abbia colpito. Di quanto sia ancora oggi attuale, in una società globalizzata e massificata, nella quale le scelte dei singoli sembrano sempre meno incisive, in cui l'originalità ha ceduto il passo all'omologazione.


Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare.

La trama è nota: nel 1776 il barone Cosimo Piovasco di Rondò, in seguito ad un diverbio con il padre su un piatto di lumache, decide di salire su un albero,  per non ridiscenderne mai più. Questo atto di ribellione è in realtà una metafora di qualcosa di più grande, che va aldilà del semplice disagio giovanile.
Quella di Cosimo non è solo una scelta per la vita ma una scelta di vita: con il suo profondo atto di rottura prenderà le distanze dalla sua famiglia per affermare la propria individualità, rigettando ogni tipo di norma che non sia quella dettata dalla propria moralità. Non vivrà infatti come un selvaggio al di sopra delle regole, ma, al contrario, tutta la sua esistenza sarà orientata e guidata da un rigido codice di principi morali.
Attraverso il protagonista di questo romanzo, Italo Calvino ha voluto rappresenta la figura dell'intellettuale che, pur mantenendo una certa distanza, da' il proprio contributo all'evoluzione della società. Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, Cosimo infatti non condurrà una vita votata alla solitudine, tutt'altro: dall'alto delle cime frondose di magnolie, lecci e ulivi sarà parte attiva della propria comunità: combatterà i pirati, progetterà fontane e sistemi per prevenire gli incendi, caccerà ogni tipo di animale, vivrà tresche segrete e avventure al limite dell'inverosimile.


Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.

Come nel caso del barone di Münchhausen, le storie di Cosimo mescolano realtà e fantasia ma ciò non toglie forza al messaggio del libro, anzi ne amplifica la portata: la ribellione non è fregarsene delle regole di convivenza civile o non avere nessuna etica. Anzi il protagonista di questo libro dimostra il contrario. La vera libertà è vivere assecondando la propria natura, seguendo inflessibilmente i propri principi. La vera libertà è il coraggio di essere diversi, di emergere dal branco, di reagire alle critiche della massa. 
Cosimo è un eroe dei nostri giorni perché dimostra che, se si è disposti a pagarne il prezzo, si può scegliere di essere liberi, liberi non solo dalle imposizioni materiali ma dai vincoli mentali, da tutto ciò che ci limita, ci inibisce, ci soffoca. Una condizione che è più mentale che materiale. L'insegnamento che Calvino lascia a tutti, in special modo ai più giovani, è chiaro: siate fedeli a voi stessi e accettatevi, solo così anche gli altri finiranno con l'accettarvi.
D'altra parte, come affermava Nietzsche, la vera felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma è voler tutto ciò che si fa.


Indicazioni terapeutiche: per chi sogna di fuggire dalla prigione della quotidianità.

Effetti collaterali: come muore un uomo che ha vissuto tutta la vita osservando la terra dall'alto? Semplicemente volando via. Un finale aperto che ci lascia con la più bella delle speranze: chi è veramente libero non vive forse per sempre?



martedì 28 agosto 2018

L'animale femmina di Emanuela Canepa

Vincitore del Premio Calvino 2017 all'umanità: ho comprato questo libro attratta dalla recensioni positive. Purtroppo la promessa di consegnare una storia che mettesse a nudo le fragilità femminili, in una sorta di educazione sentimentale in cui le prospettive si ribaltano non è stata tuttavia mantenuta. Forse non sono stata io in grado di cogliere il messaggio dell'autrice, ma, in verità, questo romanzo non si è dimostrato all'altezza delle mie aspettative e dopo un'inizio promettente si è perso per strada, non riuscendo a trasmettere il pathos e il coinvolgimento che mi sarei aspettata. 

Sono mesi che mi tormenta ai limiti dello stalking. Ragionare con lei è impossibile. Non vuole la soluzione più efficace sul piano dei diritto. Vuole che qualcuno le restituisca la vita che ha perso. O almeno un responsabile su cui infierire. Un cadavere per placare la rabbia. Tutte cose che io non posso darle.

Rosita è una ragazza fuggita dal sud e da una madre oppressiva, che vive a Padova dove frequenta con scarsi risultati la facoltà di Medicina. La sua vita sembra destinata ad un grigiore perenne: una vita modesta, niente amici né relazioni stabili, nessuno con cui condivider il peso dei propri fallimenti. Un giorno incontra per un caso fortuito un ricco e stimato professionista, l'avvocato Lepore, che rimasto colpito dalla sua situazione le offre il suo aiuto, assumendola part-time nel suo studio.
Nonostante l'apparente atto di disinteressata generosità, l'avvocato Lepore si rivela ben presto tutt'altro che un benefattore:  Rosita scopre velocemente di essere al cospetto di un uomo cinico, imprigionato dalla propria visione del mondo e dal bisogno di catalogare tutte le persone che incontra. In particolar modo, sembra provare una particolare avversione per l'intero genere femminile: come reagirà Rosita alle sue continue provocazioni? Riuscirà, nonostante la sua fragilità emotiva, ad opporsi al soverchiante maschilismo del suo titolare o né rimarrà schiacciata?

A un certo punto ho capito che continuare a sperare era solo una scelta tossica. A partire dai quattordici anni nella mia testa ha cominciato a prendere forma un pensiero spontaneo e ossessivo di cui mi vergognavo a morte, ma che non riuscivo a censurare: “Devo andarmene da questa casa o mi verrà una brutta malattia”. Per molto tempo non ho avuto il coraggio di farlo. Poi mi sono detta che dovevo tentare, e alla fine, non so bene come, ci sono riuscita. Perché sapevo che là dentro sarei morta. E io invece volevo vivere.

Andando avanti nella lettura emergono i veri motivi alla base della misoginia dell'avvocato Lepore: non aggiungo altro per no rivelare troppo della trama ma, a mio avviso, la ricostruzione del passato dell'uomo non basta a giustificare un così gretto atteggiamento. Probabilmente perché non appartengo alla categoria di chi giustifica gli errori del presente in nome delle sofferenze del passato.
D'altra parte non sono neanche riuscita a provare empatia per la protagonista: una ragazza insicura, quasi al limite dell'o sprovveduto, che si lascia coinvolgere in maniera del tutto passiva in torbidi intrighi pur di non perdere quel briciolo di sicurezza che le era stata donata. Nemmeno il twist in the end è riuscito farmi ricredere e risollevare un romanzo che, per la maggior parte del tempo, naviga tra le acque poche profonde della noia.
L'animale femmina ci consegna un quadro fosco dei rapporti tra uomini e donne (ma non solo), dominati dalle menzogne e dall'egoismo, in cui sono proprio le donne ad avere la peggio, vittime delle proprie illusioni, imprigionate in storie a senso unico, in cui donano tutto senza ricevere nulla in cambio. Come se l'amore potesse prescindere dal rispetto di sé. Come se l'amore fosse una stampella. Come se l'amore dovesse colmare l'immenso buco generato dalle proprie insicurezze. 
Ma davvero nel 2018 si può ridurre la complessità delle relazioni umane al ruolo dell'"animale femmina", ossia ricorrendo allo stereotipo della naturale tendenza delle donne a sottomettersi alle pretese maschili?  


Indicazioni terapeutiche: per chi vuole scavare nell'animo umano.

Effetti collaterali: La misoginia non trova giustificazioni, così come il becero femminismo che assolve le donne a prescindere in quanto tali. Su un punto Emanuela Canepa non ha fatto differenze: tutti i personaggi del racconto sono ugualmente colpevoli, vittime e carnefici, costretti a convivere con le proprie cicatrici e con il rimorso del dolore inflitto a chi più amavano.


mercoledì 8 agosto 2018

I miei libri per l'estate 2018

Le giornate afose che scoraggiano ogni movimento, le notti sempre più lunghe, le mattine trascorse al fresco dell'ombrellone. L'estate è la stagione in cui ogni momento diventa ideale per immergersi tra le pagine di un libro.
Ecco una selezione delle mie letture estive.


Mani calde di Giovanna Zucca
Cosa hanno in comune un bambino di dieci anni ingenuo e simpatico e un neuro-chirurgo anaffettivo e arrogante? Niente, almeno fino al giorno in cui un incidente li fa incontrare. Il primo steso su un letto in coma e il secondo deciso a salvarlo, nonostante la diagnosi infausta.
Mani calde è una favola sui buoni sentimenti e sul coraggio di cambiare: sarà proprio Davide a travolgere per sempre la vita del dottor Bozzi, obbligandolo a rivedere la sua intera scala di valori. La morale è servita su n un piatto d'argento: chi guarisce il prossimo, guarisce sé stesso.

Quasi a casa di Elena Moretti
Adrian è un ragazzo problematico, cresciuto tra barboni e abbandoni, che approda come ultima spiaggia in una malga gestita da Rosa, una contadina dal carattere aspro, dove imparerà a convivere con altri ragazzi dal passato travagliato come lui. Una lettura piacevole e non troppo impegnativa, a tratti forse un po' troppo stereotipata: un romanzo di formazione con tanto di riscatto finale che ci insegna che crescere significa superare certe ferite, spezzare alcuni legami e costruirne altri.

L'animale femmina di Emanuela Canepa
Rosita è una studentessa fuoricorso di Medicina a Padova, fuggita dal suo paesino del sud e dalle attenzioni morbose della madre. Ormai rassegnata ad una vita di grigiore ed insuccessi, il destino le fa incontrare la vigilia di Natale un distinto professionista, l'avvocato Lepore, che le offrirà un lavoro part-time nel suo studio. Quello che sembra un colpo di fortuna si rivelerà in poco tempo però una trappola psicologica.
Vincitore del premio Calvino 2017, questo romanzo ambisce ad essere un manifesto femminista ma, a mio parere, non supera il banco di prova, scadendo talvolta nel banale. Non vi resta che leggerlo e farvi la vostra opinione!

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman
Eleanor Oliphant ha 30 anni e vive ai margini della vita, evitando ogni superfluo contatto umano e ogni tipo di relazione. Un lavoro monotono, una casa vuota rallegrata solo da un cactus, interminabili weekend trascorsi con la sola compagnia di una bottiglia di vodka. Eleanor Oliphant non sta benissimo per niente,  è una sopravvissuta: ha bisogno soltanto di qualcuno che le porga la mano e la aiuti a lasciarsi definitivamente alle spalle un passato orribile.
Questo romanzo ci regala il ritratto ironico e delicato di una protagonista fuori dal comune, respingente e senza filtri, che lascia tuttavia il segno e per la quale, alla fine, non si può fare a meno di fare il tifo.

22..11.63 di Stephen King
Il maestro dell'horror cambia genere e ci regala un romanzo che ha come tema principale un viaggio nel tempo: Jake Epping torna nel 1963 per impedire l'assassinio di Kennedy e costruire il migliore dei futuri possibili. Un'opera complessa, ricca di contaminazioni e rimandi ad altre opere e generi, che pone un interrogativo filosofico: modificando alcuni grandi eventi della storia, è possibile riscrivere le sorti dell’umanità?
767 pagine di storia travolgente: la ricetta ideale per dimenticare ogni preoccupazione e staccare la spina. Grazie Mister King!


Buona lettura!!!!



mercoledì 1 agosto 2018

Oceano Mare di Alessandro Baricco


Una visione onirica, una carrellata di immagini e situazioni che ammaliano il lettore, un libro senza trama apparente che mischia poesia e filosofia. Un balsamo per l'animo. Questo e molto di più è stato per me, Oceano Mare.
In bilico sull'orlo della terra, cullato dalla preghiera incessante del mare, sorge un luogo fuori dal tempo, la Locanda Almayer, dove le persone si rifugiano per guarire, o più spesso, per sfuggire ai mali del mondo. Scorrendo le righe incontriamo il pittore Plasson, che cerca di dipingere dove inizia il mare; la bella Elisewin, talmente fragile da aver paura perfino del rumore dei suoi passi; il professor Bartleboom che sta scrivendo un'enciclopedia sui limiti. E Ann Deverià che deve guarire da una strana malattia, l'adulterio. E ancora il misterioso Adams, che nasconde un terribile segreto.


Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. 

Cosa lega questi personaggi? In apparenza, nulla. In realtà, tutto. Lo stesso spasmodico bisogno di trovare un senso, una strada tra le infinite possibilità, una pace che metta a tacere i tumulti del cuore, che mormora incessantemente come le onde che si infrangono sulla battigia.
È proprio il mare l'unico comune denominatore.
Il mare con il suo ventre marino capace di dare la vita ma anche di toglierla, culla segreta di antichi misteri, teatro di naufragi e terribili sciagure, capace di portare un uomo alla pazzia ma anche di guarirlo.
Il mare amico fidato, indifferente spettatore, rasserenante compagno, gelido nemico.
Il mare fine ultimo e principio di ogni cosa.


Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno un padre, un amore, qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume immaginarlo, inventarlo e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano.

Su Alessandro Baricco è già stato tutto. Il mondo dei lettori si divide tra chi lo ama e chi non lo sopporta. Personalmente, credo che i giudizi sugli autori lascino il tempo che trovano, ciò che mi interessa sono i libri, e come quest'ultimi ci parlino, ci coinvolgano, ci emozionino.
Oceano Mare è un libro di un'intensità sconvolgente, un concentrato di lirismo e suggestione, di difficile definizione. Non è un romanzo nel senso stretto del termine: a tratti sconfina talmente nel surreale da sembrare un fiaba, altre volte ancora trascende nella metafisica.


Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo...salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. tu stai con loro, et i salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti male.

Un'opera dalla molteplici interpretazioni che ho fatto fatica ad inquadrare, ma che più probabilmente fugge ad ogni tentativo di banale classificazione. La verità è che la scrittura di Baricco è talmente evocativa e visionaria che sembra cantare come una sirena, ammaliando il destinatario, che si lascia travolgere con piacere, abbandonandosi senza riserve e lasciandosi guidare, così come il mare ipnotizza e sconvolge, spaventa e affascina, in un abbraccio da cui è impossibile sciogliersi.


Indicazioni terapeutiche: per chi cerca un senso, sapendo che non lo troverà.

Effetti collaterali: il capitolo sul naufragio è da pelle d'oca. Impossibile non andare con il pensiero ai fatti di cronaca legati alle tragedie degli sbarchi dei tanti disperati che fuggono dalla miseria e dalla guerra in cerca non dico di un futuro migliore, ma almeno possibile. Un racconto di una brutalità a tratti intollerabile ma che descrive a pieno la disumanità di certe situazioni. E dell'uomo, che tra tutte le bestie è la più crudele.




mercoledì 25 aprile 2018

E tu splendi di Giuseppe Catozzella


Arigliana, un paese inventato incastonato tra le colline lucane, è il teatro di una storia in cui si intrecciano l'innocenza del protagonista, appena bambino,  e la brutalità di un mondo che fa sconti a nessuno.
Pietro, dopo essere stato bocciato a scuola, viene mandato dal padre a trascorre l'estate, assieme alla sorella Nina, a casa dei nonni. Pietro si sente solo: la mamma è "andata avanti",  ad aspettarli in un posto migliore. Ma a lui non importa, continua a parlarle e a chiederle consiglio ugualmente, anche se ogni volta che lo fa avverte una morsa alla pancia. La nostalgia che lo assale in alcuni momenti è talmente forte che assume le sembianze di un cane che gli lacera la carne. Un dolore sì forte ma che nel tempo è diventato così familiare che Pietro gli ha dato un nome: Canetto.

Certe volte mi prendeva tutto un desiderio di essere di più di me, mi sentivo così piccolo e così grande insieme che sarei voluto scoppiare, e quella era una di quelle volte.

La vacanza al paese dei nonni materni sarebbe dovuta essere come una boccata d'aria fresca, il ritorno ad una tranquillità perduta, ma non andrà così. Il lento tran-tran del piccolo paese di case di pietra è destinato infatti ad essere travolto per sempre: ad Arigliana arrivano gli stranieri. La comparsa sulla scena di un gruppo di immigrati verrà accolta con astio dagli abitanti che, chiusi nella loro diffidenza, non sembrano, almeno in un primo momento, disposti ad accettare di buon grado i nuovi venuti.
Si sa, le novità spaventano, perché non è possibile controllare ciò che non si conosce.
Ma come sempre accade, ogni cambiamento, pur piccolo che possa essere, è destinato ad innescare un'imprevedibile catena di eventi. Saranno proprio i nuovi arrivati infatti a dare il via a un tentativo di rivalsa, riattizzando una voglia di lottare che sembrava sopita per sempre, tornando a far vibrare la speranza di un Sud, stanco e rassegnato, in cui si mescolano sogni e disillusioni. Tutto è destinato a trasformarsi o si tratta soltanto di un miraggio?

Poi si è girato verso il quadretto appeso in cucina, e mi ha chiesto di leggere quello che c'era scritto. Io non avevo voglia, ma nonno ha insistito. Così ho letto. «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia,» ho detto.

Giuseppe Catozzella, dopo il successo del romanzo Non dirmi che hai paura, torna ad affrontare uno dei temi più attuali e dibattuti dei nostri tempi, quello dell'immigrazione. Ma non solo. Questo libro non fa riflettere soltanto su tematiche come l'integrazione, la paura del diverso, il razzismo; l'autore sceglie infatti volutamente di ambientare il suo racconto in un paese del profondo Sud Italia, dove neanche Cristo è mai arrivato. Un luogo fuori dal tempo, che incarna tuttavia una certa mentalità italiana, quella rassegnata all'inefficienza, all'ingiustizia, al malaffare. Chi ci vive è condannato ad un'esistenza vissuta all'ombra di uno spettro, quello della mafia, che spegne ogni iniziativa, soffocando qualsiasi seme di speranza o volontà di cambiamento.

Io i miei nonni li odiavo, perché ai miei nonni mancava l'unica cosa che fa di un uomo un uomo: il coraggio.

Eppure un barlume di speranza è possibile. Nonostante la xenofobia, l'ingiustizia, la rabbia, sembra voler dire l'autore, si può scegliere: scegliere di non arrendersi, di non perdere la voglia di lottare, di vivere, di splendere. Catozzella sceglie di raccontare e raccontarsi attraverso gli occhi del protagonista, uno sguardo carico di fragilità, capace tuttavia di cogliere le spietate contraddizioni della nostra società, in cui imperversa una guerra tra poveri, mentre chi fomenta l'odio e l'intolleranza si arricchisce in silenzio. Perché le cose che salvano nella vita sono salate: le lacrime, il sudore, il mare. 

Indicazioni terapeutiche: per chi lotta contro il pregiudizio per essere migliore, per chi vede nel diverso un'opportunità, per chi non si rassegna alla prevaricazione.

Effetti collaterali: La grande assente d questa storia è la mamma di Pietro. È lei che consegna al figlio il messaggio che racchiude la lezione profonda di questo romanzo. Mai abbandonarsi alla paura. Mai rinunciare. mai chiudersi in sé stessi. Anche se il mondo è un luogo spaventoso, senza pietà, crudele.  Anche se il nostro unico desiderio è chiudere tutto il male fuori.“E TU SPLENDI.”
E' questo il testamento spirituale che la mamma consegna al figlio, citando - come spiega lo stesso Catozzella -la trascrizione sbagliata di uno stralcio dalle “Lettere luterane” di Pier Paolo Pasolini: “Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”


venerdì 13 aprile 2018

Mi vivi dentro di Alessandro Milan



Non tutte le storie d'amore hanno un lieto fine, ma non per questo non meritano di essere vissute, o raccontate. Questo libro è la testimonianza di un sentimento che semplicemente non finisce, ma va oltre. Oltre la morte, la malattia, la sofferenza.

"Io non sarò mai la mia malattia" diceva Francesca. Era il suo urlo di rabbia contro il tumore, era il motivo che la spingeva a mettere su il suo bel musino di tolla e a parlarne con il sorriso sulle labbra. Questa invece è, a oggi, la mia debolezza più grande. Quella malattia che lei, anche se in modo tragico, alla fine ha messo via, per me è ancora una ferita aperta. E come tutte le ferite, brucia. Vorrei ascoltare le righe di Wondy e riuscire a sorridere. 

Alessandro e Francesca sono una coppia come tante, o forse, come poche, innamorata e affiatata, quando nella loro vita irrompe il tumore. Francesca è una piccola donna dagli immensi occhi blu e i biondi capelli arruffati, fragile solo all'apparenza. Francesca è una forza della natura, coraggiosa, positiva, sempre allegra: è una Wonder Woman in carne ed ossa, per questo per gli amici è semplicemente Wondy. Con l'innato entusiasmo che la contraddistingue affronterà ogni visita, ogni ricovero, ogni ricaduta, scegliendo di raccontare, per essere un'ispirazione per altri malati come lei, la sua battaglia in un libro.
Accanto a lei suo marito, il suo compagno di vita, che ha vissuto con lei quel viaggio senza ritorno, cercando di barcamenarsi tra il timore di non essere abbastanza e la paura del futuro, un futuro nel quale sarebbe rimasto da solo a lottare contro i fantasmi di una disperazione troppo grande da arginare.


Oggi è un signor bonsai. Ha affrontato il gelo dell’inverno, ha superato l’abbandono di chi si doveva prendere cura di lui, ha attraversato il dolore dell’assenza da solo. Chissà, a un certo punto avrà anche pensato di lasciarsi andare. Ma oggi splende. Di verde smeraldo. Il “dopo” nel quale prendersene cura è arrivato,quando sembrava troppo tardi. Invece non è mai troppo tardi. Oggi, quel bonsai sono io. 

Questo libro parla di lui. Del suo tentativo di essere all'altezza della donna che aveva amato, di non lasciarsi schiacciare, di essere forte per sé stesso e per i suoi due figli, Mattia e Angelica.
Come si fa?
Come si sopravvive alla notizia che tua moglie ha un mese di vita? Come riesci a guardarla negli occhi, sapendo il poco tempo che vi resta da vivere insieme?
Alessandro Milan, giornalista di Radio24, riesce a verbalizzare, senza troppa retorica o inutile pathos, un dolore indicibile. Lo fa in nome di un obiettivo più nobile, testimoniare che non solo un percorso è doveroso, ma è possibile tornare a sorridere, salvarsi, andare avanti. Soprattutto, continuare a vivere.
Mi vivi dentro è un inno alla resilienza: la morte fa parte della vita, così come la sofferenza, ma si può scegliere. Scegliere di non accartocciarsi su sé stessi, ma farsi attraversare dalle emozioni negative, morire un po' per rinascere. Un po' ammaccati, fiaccati, spezzati, ma più forti prima.


Indicazioni terapeutiche: per i resilienti, per chi è sopravvissuto, per chi ogni giorno si veste del suo miglior sorriso per affrontare il mondo.

Effetti collaterali:  Non vi racconterò stupide favolette. Wondy ha perso la battaglia. Perché lei voleva vivere. Francesca amava follemente vivere. Se cercate l'happy ending questo libro non fa per voi. Ci si commuove e si piange, molto. Ma anche se quella di Alessandro e Francesca non è una favola, qualcosa insegna. L'unico modo per vivere veramente a pieno la propria esistenza è vivere senza paura.

lunedì 26 marzo 2018

L'Agnese va a morire di RenataViganò

Leggere un romanzo che affronta un tema come quello della Resistenza significa prima di tutto interrogarsi su quanto oggi abbia senso parlare a distanza di oltre 70 anni di quegli anni, la guerra, l'occupazione tedesca, il fascismo, la guerra civile.
Il riaccendersi di sentimenti nostalgici e il ritorno in auge di gruppi politici come Casa Pound e Forza Nuova, ci impone di interrogarci sul fatto che se questi gruppi neo-fascisti siano da considerarsi o meno un pericolo per la nostra democrazia. Non si tratta tuttavia soltanto del ritorno di slogan come “Prima gli italiani” o di invocare l’uomo forte della Provvidenza che riporti l’Italia ai suoi antichi fasti, ma siamo di fronte al perpetuarsi di conflitti, come quello in Siria, che vede, come sempre, come vittime al primo posto, i civili.

L'Agnese va a morire è un romanzo che parla della guerra che irrompe nella vita di una donna, l'Agnese, portandole via tutto, suo marito "il Palita", la sua casa, la sua quotidianità.
Sarà un episodio apparentemente banale, un soldato tedesco ubriaco che spara per gioco alla gatta Beniamina, ultimo rimasuglio di un'idea di famiglia squarciata dall'occupazione nazista e dalla guerra civile, a innescare una catena di eventi inarrestabile. In preda alla rabbia, l'Agnese abbraccia un fucile e colpisce il soldato addormentato, innescando la rappresaglia del nemico che la costringe a fuggire e darsi alla macchia. Nello stesso  momento in cui dà la morte firma per riceverla, contrassegnando il suo destino: andare a morire.

Aveva ragione l'Agnese. "Quello che c'è da fare, si fa". Lei era abituata a contare poco sugli altri. Da tutta la sua vita, più di cinquant'anni, si arrangiava da sola. Si sentiva un po' stanca, le pareva che il cuore fosse diventato troppo grande, una macchina nel petto, una cosa estranea e meccanica che andava per suo conto, e lei faticava a portarla in giro. Non pensava mai a quello che avrebbe fatto dopo la guerra. Ne desiderava la fine per "quei ragazzi", che non morisse più nessuno, che tornassero a casa. Ma lei non aveva più la casa, non aveva più Palita, non sapeva dova andare.

Lasciandosi la sua vecchia vita alle spalle, l'Agnese si unisce ai partigiani: essendo poco tagliata per la battaglia, si occupa dell'approvvigionamento dell'accampamento diventando quella figura materna di cui i combattenti avevano un disperato bisogno. Nel campo nascosto tra i canneti delle valli di Comacchio, trova quasi una sorta di nuova dimensione, una specie di famiglia allargata di cui prendersi cura, un nuova spinta per vivere e sopravvivere.
Ma è solo un'illusione fugace. La Guerra non è altro che un oceano di lacrime e sangue, di morte e solitudine.


C'era però chi diceva qualche cosa: il partito,i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare, che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. I fascisti non volevano, e loro ci si buttavano contro malgrado la prigione e la morte.

L'autrice tratteggia una protagonista, ispirata ad una donna realmente esistita, indimenticabile: l’Agnese è una donna che non si ferma davanti a nulla, che agisce e basta perché è l'unica cosa che possa fare, che possano fare tutti quelli che hanno abbracciato la causa partigiana, sotto la pioggia, nell'afa insopportabile, bagnati fradici, nella nebbia, nel fango e nel freddo dei boschi.
L’Agnese, come lascia presagire il titolo, morirà catturata durante un rastrellamento, portando a compimento il fato che si era scelta. Una fine ingloriosa. Del suo ardore, del suo coraggio, della sua tempra non resta che un mucchio di stracci neri sulla neve.
Renata Viganò rende merito con quest'opera a tutti i Palita, a tutte le gatte Beniamina, alle centinaia di vittime senza nome, all'Agnese e a tutte le donne che si unirono alla causa.  Un inno all'eroismo sfrontato di tutti coloro che hanno lottato fino a "trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà".


Indicazioni terapeutiche: per chi vuole ripercorrere la nostra storia, immergendosi negli anni in cui affondano le radici della democrazia in cui viviamo oggi.

Effetti collaterali: Prime della morte del marito, l'Agnese non si era mai occupata di politica, dal momento che riteneva si trattassero di "cose da uomini". Ma la sua perdita è destinata a cambiare le sue priorità: il partito e la lotta armata diventano lo strumento per superare la distinzione della società tra ricchi e poveri, tra vittime e carnefici, tra chi domina e chi è dominato. La Resistenza si configura non più soltanto come una guerra di liberazione ma come un movimento finalizzato alla costruzione di un paese giusto ed ugualitario, dove tutti possano aspirare non solo a sopravvivere ma ad amare, divertirsi, essere felici . Questo era il partito, e valeva la pena di farsi ammazzare.


venerdì 16 marzo 2018

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout



New York. Una camera di ospedale dalla cui finestra si coglie lo spettacolo della vetta scintillante del Chrysler. Dentro due donne che non si vedono da tanto tempo. Una è ricoverata a seguito delle complicanze di un intervento chirurgico, l'altra la assiste.
Nell'arco di pochi giorni, cinque per l'esattezza, parleranno come non hanno fatto mai e come non faranno più. Le due donne non sono persone qualunque, ma sono legate dal legame più ancestrale e contraddittorio che possa esistere: sono madre e figlia.


E quella sera, nella stanza dell'ospedale, mia madre era la madre che avevo sempre avuto, per quanto diversa potesse sembrare con quella voce quieta, inderogabile, e la faccia più tenera del solito.

La voce narrante appartiene alla figlia, ricoverata a causa di una misteriosa infezione, che, con suo grande stupore, vede apparire al suo capezzale la madre che non vede da molto tempo.
"Ciao Bestiolina". Due semplici parole capaci di spazzare via l'assenza di anni.
L'asettica stanza dell'ospedale prenderà vita popolandosi di figure che arrivano dalla provincia dell'Illinois: alla protagonista non resterà che ascoltare dalla voce calma e rassicurante di sua madre, così diversa da come la ricordava,  il racconto delle disavventure dei suoi ex concittadini, persone che credeva di aver dimenticato, perché tornino a galla i dolorosi ricordi della sua infanzia. La miseria, gli abusi, il senso di inferiorità.
Il racconto diventa allora un patto di tregua, un modo per riannodare un filo spezzato, un legame sepolto dalle incomprensioni e dalla lontananza.
Ma come si parla alla propria madre quando il silenzio ha ricoperto anni di sofferenza e povertà, quando la tua vita è piena di non detti, quando la persona che avrebbe dovuto proteggerti è quella che ti ha ferito maggiormente?
Il passato è un fardello è troppo pesante. Eppure sua madre è lì accanto a lei, nel momento in cui ne ha più bisogno, senza allontanarsi né dormire mai.


Mi meraviglia come riusciamo a trovare modi per sentirci superiori a un'altra persona, o a un gruppo di persone. Succede dappertutto, di continuo. Comunque lo si chiami, a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare

Mi chiamo Lucy Barton è un romanzo breve, quasi asciutto, mai banale però . Solleva al contrario numerosi riflessioni sull'importanza della famiglia di origine, delle radici, di certi vuoti che non si placano mai.
Il dolore dei figli dura per sempre. Questo sembra essere il messaggio che Elizabeth Strout ci consegna.
L'amore tra una madre e i suoi figli è grande, grandissimo, immenso, ma anche imperfetto. Quando la tua vita è piena di verità taciute,  perdonare chi  al tempo stesso è sia la fonte del tuo dolore e delle tue insicurezze sia una persona che non puoi fare a meno di amare diventa un'impresa destabilizzante. Tuttavia fare pace con questa amara consapevolezza, accettare cioè l'idea che le persone non siano come noi le avremmo volute è un primo doloroso passo verso una vita serena e piena.



Indicazioni terapeutiche: per chi ha fatto pace con i fantasmi del proprio passato e ha deciso di guardare avanti.

Effetti collaterali: Come si conquista  la felicità se non ci è stato insegnato l'amore?
Attraverso il racconto di sé stessi e su sé stessi.
La protagonista di questo romanzo persegue la ricerca  del suo equilibrio per mezzo della passione per la scrittura. Perché come dice la Strout ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi. Tanto ne avete una sola.


lunedì 5 marzo 2018

Presentazione del libro "L'eroico sacrificio di Delia e Maria a Sant'Anna di Stazzema" di Giuseppe Vezzoni


Da sinistra a destra: Giuseppe Vezzoni, Elisa Bandelloni, Maria Bresciani e Liliana Mancini


Questo volume è l'adattamento di una lettura scenica scritta da Giuseppe Vezzoni con il titolo Il bolgetto del Mulino delle Gobbette, interpretata dalla Compagnia Coquelicot Teatro sulla piazza della chiesa di Sant'Anna il 6 agosto 2016. L'autore ha poi deciso di riprendere il testo dell'opera teatrale e adattarlo in forma di racconto per far sì che giungesse al maggior numero di persone possibile.
La voglia di rendere nota questa storia nasce dal cruccio della signora Maria Bresciani, moglie del superstite Angiolo Berretti, fratello minore di due ragazze trucidate a Sant'Anna, convinta che la vicenda della loro morte avrebbe meritato maggiore considerazione.
Il testo riporta infatti un episodio, sconosciuto ai più, accaduto durante la strage nazifascista di Sant'Anna di Stazzema: si tratta del sacrifico di due sorelle, Maria Giovanna e Adelia Berretti, di 23 e 19 anni, che si prodigarono la mattina del 12 agosto 1944 ad avvertire quanta più gente possibile dell'imminente arrivo dei tedeschi, permettendo così a moli compaesani di mettersi in salvo. Il loro altruismo costò loro la vita, poiché furono uccise da una pattuglia di nazifascisti in località di Mulini di Sant'Anna.

Un giorno che era nato per essere mirabilmente luminoso e azzurro e che invece fu segnato dal ghigno della morte e dalla sua inesorabile falce affondata nell'erba ancora vergine, nei corpi innocenti di tanti bambini, troppi per qualsivoglia carneficina, ma non per quella nazifascista.

Alla presentazione del libro hanno partecipato, oltre all'autore, due donne che si sono fatte portatrici di due testimonianze importanti: Liliana Mancini, che all'epoca aveva solo 22 mesi ed era nascosta con i fratelli in un metato nel bosco, la figlia più piccola dei mugnai Egisto Mancini e Maria Pardini, uccisi anche loro in località Mulini di Stazzema, e Maria Bresciani, vedova di Angiolo Berretti, fratello più piccolo delle due sorelle protagoniste del racconto.
Dalla loro viva voce, a tratti rotta comprensibilmente dall'emozione, è emerso il dolore per una ferita che il tempo non può sanare, di un orrore, che a 74 anni di distanza, lascia tuttora atterriti. Purtroppo quello che accade è che si parli più spesso dei carnefici che delle vittime. Allora il ricordo di quell'intero paese raso al suolo dalla bestialità della guerra, da uomini carnefici di altri uomini, resta solo nella memoria dei pochi sopravvissuti, dei familiari superstiti che hanno dovuto imparare a convivere con un'assenza talmente forte da annullare ogni altra presenza.
Credo che, oggi come allora, parlare di Sant’Anna significhi prima di tutto onorare la memoria di quelle vittime, vecchi, donne e bambini, trucidati orrendamente. Le indagini della procura militare di La Spezia hanno recentemente stabilito che non si trattò di una rappresaglia  ma di un atto che potremmo definire oggi terroristico. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

A Sant'Anna la sera quel sabato 12 agosto 1944 cancellò ogni desiderio di inseguire con lo sguardo le stelle cadenti nel mare. Restavano solo le lacrime, la disperazione, l'incredulità di fronte a quello scempio, lo sgomento, insieme alla maledizione contro chi li aveva costretti a subire una sorte tanto tragica e devastante. Gli scampati ebbero subito la consapevolezza che la loro sopravvivenza fosse una vera e propria ingiustizia, un castigo invece che un favore del destino.

L'altra questione che vorrei sottolineare è lopportunità di presentare questo libro oggi, vicino alla data dell’8 marzo, festa della donna. Oggi molti si chiedono il senso di questa ricorrenza. La festa della donna è, a mio avviso, la presa di coscienza che c'è ancora tanto da fare sul cammino della parificazione tra uomini e donne, relativamente al tema della conciliazione lavoro e famiglia, ma non solo. Troppe donne vivono situazioni di abusi e finiscono uccise da coloro che da compagni di vita si sono trasformati nei loro carnefici.



La giornata della donna significa parlare di coraggio, di voglia di autodeterminarsi, di indipendenza.
Quest’opera racconta appunto una storia di eroismo e di sacrificio che ha come protagonista due ragazze. Due ragazze normali che, in questo senso, mi ricordano un'altro personaggio femminile, quello di uno dei libri più importanti della narrativa del dopoguerra, L’Agnese va morire di Renata Viganò, una testimonianza della resistenza vissuta da una persona comune, una donna appunto.
L’Agnese, come lascia presagire il titolo, morirà catturata durante un rastrellamento. Lo stesso accadde per Delia e Maria, che trovano la morte in un mulino, uccise perché non restarono nascoste, ma si adoperarono spinte dal desiderio di proteggere la propria famiglia.
L'altra figura femminile di spicco di questa storia è Anna, la madre delle due sorelle, che impotente,  le vide uscire dal loro nascondiglio e non riuscì a proteggerle come avrebbe voluto, impegnata a tenere nascosto il piccolo Angiolo, appena bambino.
A lei toccherà la sorte più dura, cioè quella di sopravvivere alla morte delle proprie figlie. Sarà proprio lei, nell'ultimo capitolo dell'opera, a lasciarci la sua ultima riflessione: di fronte ad una natura ormai totalmente indifferente, così come era stata silenziosa spettatrice degli scontri tra alleati e nazi-fascisti, non c'è mai pace da un dolore così devastante, non ci si abitua mai.
L'unica speranza è affidata alle nuove generazioni, perché non dimentichino. Perché in loro non si spenga mai la sete di giustizia e verità.




Giuseppe Vezzoni riempe i vuoti delle testimonianze con una licenza poetica delicata e potente allo stesso tempo, ricorrendo alla forza espressiva del dialetto versiliese. Come nei suoi libri precedenti, l'autore riesce in un'impresa degna di merito: ridare la voce a coloro a cui era stata strappata con una brutalità che lascia ancora oggi atterriti.


sabato 3 marzo 2018

Stoner di John Williams


Si dice che Dio stia nei dettagli. Che la grandezza si nasconda nelle pieghe più umili nella vita, nei dettagli appunto, che restano invisibili agli occhi disattenti della maggior parte delle persone.In questo senso, Stoner è un romanzo quasi perfetto, perché seppur apparentemente incentrato su una storia banale, una vita piatta, costruisce un universo denso di significati, catapultandoci nel mondo interiore del protagonista.  Se raccontare in maniera epica una vita avventurosa è difficile, come si può definire la capacità di glorificare una vita ordinaria? Il genio di un fuoriclasse?
Di certo c'è del talentuoso in John Williams, che riesce nella mirabolante impresa di dare vita ad un romanzo destinato a diventare un classico della letteratura americana. Uscito più di cinquanta anni fa, nel 1965, questo libro è stato ripubblicato nel 2013, diventando, grazie al passa-parola,  un caso editoriale, tanto che Tim Kreider sul New Yorker lo ha definito il "più grande romanzo americano di cui non avete mai sentito parlare".

La Verità, il Bene, il Bello. Sono appena dietro l’angolo, nel corridoio accanto; sono nel prossimo libro, quello che non hai ancora letto, o sullo scaffale più in alto, dove non sei ancora arrivato. Ma un giorno ci arriverai.

William Stoner è un semplice ragazzo di campagna, figlio di contadini nel Missouri, destinato a spaccarsi la schiena, come suo padre prima di lui, piegato su un arido pezzo di terra. Iscritto alla facoltà di Agraria, rimane folgorato dall'amore per la letteratura inglese e, unico colpo di testa della sua vita, decide di abbandonare la strada che qualcun'altro aveva tracciato per lui per intraprendere la carriera di ricercatore universitario.

A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.

L'intera esistenza di Stoner sarà in realtà condannata ad una sorta di limbo, una zona grigia, come se il protagonista non fosse capace di scrollarsi di dosso la mediocrità e la malinconia che lo affliggono, come una strana malattia da cui non riesce a guarire.
Tutto lo sviluppo di romanzo è caratterizzato infatti dalla forte contrapposizione tra il mondo interiore del protagonista, ricco di sfaccettature, e l' apparente distacco con cui vive ogni tappa della propria vita.  Stoner sopravviverà ad un matrimonio profondamente infelice, alla stroncatura della sua carriera accademica, all'impossibilità di costruire un rapporto con la figlia. Si farà scivolare addosso l'odio della moglie e le scorrettezze dei colleghi, armato soltanto di un ostinato stoicismo e di un fatalismo, che affondano le radici in una caparbia etica del sacrificio, eredità dei suoi antenati.

Bisogna innamorarsi, per capire un po’come si è fatti.

Stoner è un personaggio che commuove, impietosisce, scuote. Che irrita per la pacata rassegnazione con cui affronta la vita.  Stoner è il nostro vicino di casa, la persona che fa la fila alla posta accanto a noi, il vecchio seduto da solo al giardinetto. Il prototipo dell' uomo ordinario che vive una vita ordinaria del tutto priva di qualsiasi colpo di scena.
Ma se si è capaci di grattare la scorza della superficie c'è molto di più. Stoner è anche passione intellettuale, dedizione al lavoro, coerenza e senso di responsabilità. Stoner è la sensibilità e la capacità di guardare il modo e di emozionarsi, di capire, in fondo, che la nostra vita è tutto qui.
Stoner siamo un po' tutti noi.


Indicazioni terapeutiche: per chi crede che la vera impresa eccezionale sia essere ordinari.

Effetti collaterali: Stoner rinuncia all'unico amore che abbia mai conosciuto. Lo fa senza rancore né acredine. Anzi il ricordo di quel germoglio di felicità lo accompagnerà per il resto della sua vita.
Può l'amore di pochi mesi bastare per un 'esistenza intera?
Il protagonista non rimpiangerà mai il suo passato, né si farà domande.
D'altra parte, questo è un romanzo che non da' risposte, ma che lascia al contrario tanti interrogativi inespressi, spingendo ciascun lettore a riflettere sul modo in cui conduce la propria esistenza.

lunedì 19 febbraio 2018

Cecità di José Saramago

Un altro romanzo distopico. Anche se circoscrivere il genio di José Saramago ad un mero genere letterario sarebbe, a mio avviso, riduttivo. Cecità non è solo il crudo racconto di un'utopia al contrario, ma è molto di più. È un viaggio al cuore della nostra società, un viaggio da cui non si può che tornare profondamente cambiati.

Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo.

In un paese non ben precisato e in un presente altrettanto indeterminato, un "mal bianco", una misteriosa malattia che rende cieche le persone si diffonde a macchia d'olio. Il primo gruppo di malati viene isolato in quarantena in un vecchio edificio semi-abbandonato. Tra loro un ladro, un tassista, un vecchio, una ragazza con un paio di occhiali neri, un bambino strabico, un'oculista. E la moglie di quest'ultimo, l'unica ancora capace di vedere che sceglie tuttavia di seguire il marito, senza rivelare il suo segreto. Di loro non sapremo mai i nomi. Sono solo figure,  singoli individui di una sconfinata moltitudine, simili a tanti altri.
Ben presto, a loro si aggiungeranno nuovi arrivati. Privi della vista, spaventati, abbandonati a sé stessi, ammassati come animali, la situazione all'interno dell'ex-manicomio, dove sono di fatto imprigionati senza alcun accesso a nessuna forma di cura, diventerà un inferno in terra.

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che pur vedendo non vedono.

La prosa di Saramago è di primo impatto respingente, con i suoi lunghi periodi privi di punteggiatura e i dialoghi senza virgolettatura . Ma se si riesce ad andare oltre, ci si abitua a questo modo di narrare denso e ritmato e si viene rapiti dal vortice della storia. Una storia piena di orrore, in cui l'umanità emerge in ciò che da sempre la caratterizza per il meglio, la sua disumanità.
Homo homini lupus, diceva Hobbes. Quando saltano le regole imposte dall'alto, la convivenza diventa una guerra di tutti contro tutti, dove vince il più forte, il più astuto, il più crudele. Non c'è spazio per la compassione o l'altruismo. Per sopravvivere si deve essere disposti a sacrificare qualcosa, fossero anche i propri principi morali.

E’ di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria.

Egoismo, violenza, indifferenza, sopraffazione. Questo romanzo è una grande metafora sui mali della nostra società, che vivono latenti dentro di noi, come bestie assopite, pronte a balzare per attaccare non appena si presenti la giusta occasione. La cecità non è quindi solo una malattia del corpo, ma dell'anima.
Cecità come buio dell'anima, sonno della ragione. Cecità è la consapevolezza che in ciascuno di noi alberga un lato oscuro che ci rifiutiamo di sondare, di affrontare, di rivelare perfino a noi stessi.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede che il bene sia sempre una scelta consapevole.

Effetti collaterali: Si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili. La malattia misteriosa di Saramago non è un velo oscuro che ammanta tutti gli oggetti ma al contrario è "una cecità bianca". Il bianco non solo è l'opposto del nero ma è associato alla luce, al fulgore, alla chiarezza. In quest'ottica,  il "mal bianco" sembra uno svelamento più che una copertura. L'incapacità di vedere con gli occhi non diventa allora più un limite, ma una nuova possibilità. Quella di guardare davvero le cose, di coglierne l'essenza.


giovedì 15 febbraio 2018

Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood


In una America sconvolta da imprecisati disastri nucleari, la democrazia è stata spazzata via. Il potere è ora nelle mani di un governo teocratico di stampo patriarcale che ha annullato ogni libertà individuale. Gli Stati Uniti non esistono più, al loro posto è sorta la Repubblica di Galaad. Le donne, in particolar modo, non hanno più diritti: non possono lavorare, né possedere soldi o qualsiasi altra cosa. Tra di esse vi è una categoria speciale, le Ancelle, le poche donne rimaste fertili, assegnate ai più alti esponenti della piramide sociale. Il loro compito è procreare.
La protagonista di questo romanzo è una di loro. Di lei non sappiamo niente, nemmeno il vero nome, ora è soltanto Difred, cioè una proprietà "di Fred".


Vorrei che questa storia fosse diversa. Vorrei che si svolgesse ad un livello più elevato. Vorrei che mi facesse apparire se non più felice, almeno più positiva, meno esitante, meno distratta da cose banali. Vorrei che avesse una struttura più equilibrata. Vorrei che parlasse d’amore, o di improvvise percezioni importanti per la propria vita, o anche di tramonti, di uccelli, di temporali, di nevicate.

Nolite te bastardes carborundorum.
Attraverso il suo racconto, che vuole essere una testimonianza ai posteri, Difred condivide i suoi pensieri, le sue memorie, i suoi sogni. Un presente fatto di noia, di isolamento e solitudine. Non le è permesso né leggere, né scrivere, né avere contatti al di fuori della casa in cui è costretta a vivere. È obbligata ad indossare un copricapo con delle alette laterali che limitano la sua visuale ed una veste che nasconde il corpo, di colore rosso, il colore del sangue, della vita, della passione. La sua stanza è poco più di una cella, dalla quale è stata tolto qualsiasi oggetto con cui, spinta dalla disperazione e dalla voglia di fuggire da un'esistenza alienante, potrebbe togliersi la vita.


Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell'anarchia, c'era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo.

Nolite te bastardes carborundorum.
Difred non ha più nulla, se non i suoi ricordi, quelli di una vita normale, di un passato vicino ma irraggiungibile, del mondo prima che cambiasse, di quando era libera, libera di amare, di avere una famiglia, di scegliere.
Nolite te bastardes carborundorum. Non lasciare che i bastardi ti buttino giù.
Anche se le è stato strappato tutto, la protagonista femminile di questo libro ha pur sempre la sua mente, la sua anima, che, come una farfalla impazzita, non smette di sbattere le ali contro le pareti del barattolo in cui è imprigionata. Nel silenzio della sua esistenza vuota non smette di interrogarsi, di riflettere e, soprattutto, di sperare. Sperare che la monotonia si spezzi, che qualcosa accada, che il suo corpo, oggettivato, violato, imprigionato, torni a palpitare e vivere. Sperare nella fuga. O nella morte. Non fa alcuna differenza.

Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava libertà. Vivevamo egli interstizi tra le storie altrui


Margaret Atwood costruisce una storia claustrofobica e angosciante dal ritmo lento che catapulta il lettore in un'orrore fatto di buoni propositi e precetti religiosi, dove, come è già capitato e forse ricapiterà in futuro, si compiono i peggiori delitti in nome di Dio.
Il racconto dell'ancella riecheggia gli altri titoli dell'universo letterario distopico, come 1984 di Orwell e Farheneit 451 di Bradbury, con un'aggravante in più. Nel libro della scrittrice canadese a pagare il prezzo più alto sono le donne. Ridotte a meri oggetti, classificate in base alla propria fertilità, svuotate della dignità e di ogni desiderio. Costrette a rimpiangere una normalità, ormai perduta per sempre. Una normalità che è stata loro sottratta un poco alla volta, pezzetto dopo pezzetto, in nome di un bene più grande, affinché l'ordine possa regnare sul disordine.
Perché è sempre così che accade. Precipitare nell'abisso più profondo non è solo possibile, ma molto più facile di quello che si possa immaginare. Perché è nelle migliori intenzioni che si nascondono gli abissi più profondi.


Indicazioni terapeutiche: per chi crede che il femminismo non sia passato di moda.

Effetti collaterali: Sebbene questo romanzo sia uscito nel 1985, il messaggio intimamente femminista della Atwood appare ancora oggi più che mai necessario. C'è bisogna di non cedere nemmeno un millimetro, ma anzi di continuare a lottare affinché ogni donna possa disporre del proprio corpo e vivere a pieno la propria individualità: sposarsi o no, avere figli o no, lavorare o no. Non basta la libertà da. Quello che le donne vogliono è la libertà di.