lunedì 26 marzo 2018

L'Agnese va a morire di RenataViganò

Leggere un romanzo che affronta un tema come quello della Resistenza significa prima di tutto interrogarsi su quanto oggi abbia senso parlare a distanza di oltre 70 anni di quegli anni, la guerra, l'occupazione tedesca, il fascismo, la guerra civile.
Il riaccendersi di sentimenti nostalgici e il ritorno in auge di gruppi politici come Casa Pound e Forza Nuova, ci impone di interrogarci sul fatto che se questi gruppi neo-fascisti siano da considerarsi o meno un pericolo per la nostra democrazia. Non si tratta tuttavia soltanto del ritorno di slogan come “Prima gli italiani” o di invocare l’uomo forte della Provvidenza che riporti l’Italia ai suoi antichi fasti, ma siamo di fronte al perpetuarsi di conflitti, come quello in Siria, che vede, come sempre, come vittime al primo posto, i civili.

L'Agnese va a morire è un romanzo che parla della guerra che irrompe nella vita di una donna, l'Agnese, portandole via tutto, suo marito "il Palita", la sua casa, la sua quotidianità.
Sarà un episodio apparentemente banale, un soldato tedesco ubriaco che spara per gioco alla gatta Beniamina, ultimo rimasuglio di un'idea di famiglia squarciata dall'occupazione nazista e dalla guerra civile, a innescare una catena di eventi inarrestabile. In preda alla rabbia, l'Agnese abbraccia un fucile e colpisce il soldato addormentato, innescando la rappresaglia del nemico che la costringe a fuggire e darsi alla macchia. Nello stesso  momento in cui dà la morte firma per riceverla, contrassegnando il suo destino: andare a morire.

Aveva ragione l'Agnese. "Quello che c'è da fare, si fa". Lei era abituata a contare poco sugli altri. Da tutta la sua vita, più di cinquant'anni, si arrangiava da sola. Si sentiva un po' stanca, le pareva che il cuore fosse diventato troppo grande, una macchina nel petto, una cosa estranea e meccanica che andava per suo conto, e lei faticava a portarla in giro. Non pensava mai a quello che avrebbe fatto dopo la guerra. Ne desiderava la fine per "quei ragazzi", che non morisse più nessuno, che tornassero a casa. Ma lei non aveva più la casa, non aveva più Palita, non sapeva dova andare.

Lasciandosi la sua vecchia vita alle spalle, l'Agnese si unisce ai partigiani: essendo poco tagliata per la battaglia, si occupa dell'approvvigionamento dell'accampamento diventando quella figura materna di cui i combattenti avevano un disperato bisogno. Nel campo nascosto tra i canneti delle valli di Comacchio, trova quasi una sorta di nuova dimensione, una specie di famiglia allargata di cui prendersi cura, un nuova spinta per vivere e sopravvivere.
Ma è solo un'illusione fugace. La Guerra non è altro che un oceano di lacrime e sangue, di morte e solitudine.


C'era però chi diceva qualche cosa: il partito,i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare, che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. I fascisti non volevano, e loro ci si buttavano contro malgrado la prigione e la morte.

L'autrice tratteggia una protagonista, ispirata ad una donna realmente esistita, indimenticabile: l’Agnese è una donna che non si ferma davanti a nulla, che agisce e basta perché è l'unica cosa che possa fare, che possano fare tutti quelli che hanno abbracciato la causa partigiana, sotto la pioggia, nell'afa insopportabile, bagnati fradici, nella nebbia, nel fango e nel freddo dei boschi.
L’Agnese, come lascia presagire il titolo, morirà catturata durante un rastrellamento, portando a compimento il fato che si era scelta. Una fine ingloriosa. Del suo ardore, del suo coraggio, della sua tempra non resta che un mucchio di stracci neri sulla neve.
Renata Viganò rende merito con quest'opera a tutti i Palita, a tutte le gatte Beniamina, alle centinaia di vittime senza nome, all'Agnese e a tutte le donne che si unirono alla causa.  Un inno all'eroismo sfrontato di tutti coloro che hanno lottato fino a "trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà".


Indicazioni terapeutiche: per chi vuole ripercorrere la nostra storia, immergendosi negli anni in cui affondano le radici della democrazia in cui viviamo oggi.

Effetti collaterali: Prime della morte del marito, l'Agnese non si era mai occupata di politica, dal momento che riteneva si trattassero di "cose da uomini". Ma la sua perdita è destinata a cambiare le sue priorità: il partito e la lotta armata diventano lo strumento per superare la distinzione della società tra ricchi e poveri, tra vittime e carnefici, tra chi domina e chi è dominato. La Resistenza si configura non più soltanto come una guerra di liberazione ma come un movimento finalizzato alla costruzione di un paese giusto ed ugualitario, dove tutti possano aspirare non solo a sopravvivere ma ad amare, divertirsi, essere felici . Questo era il partito, e valeva la pena di farsi ammazzare.


venerdì 16 marzo 2018

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout



New York. Una camera di ospedale dalla cui finestra si coglie lo spettacolo della vetta scintillante del Chrysler. Dentro due donne che non si vedono da tanto tempo. Una è ricoverata a seguito delle complicanze di un intervento chirurgico, l'altra la assiste.
Nell'arco di pochi giorni, cinque per l'esattezza, parleranno come non hanno fatto mai e come non faranno più. Le due donne non sono persone qualunque, ma sono legate dal legame più ancestrale e contraddittorio che possa esistere: sono madre e figlia.


E quella sera, nella stanza dell'ospedale, mia madre era la madre che avevo sempre avuto, per quanto diversa potesse sembrare con quella voce quieta, inderogabile, e la faccia più tenera del solito.

La voce narrante appartiene alla figlia, ricoverata a causa di una misteriosa infezione, che, con suo grande stupore, vede apparire al suo capezzale la madre che non vede da molto tempo.
"Ciao Bestiolina". Due semplici parole capaci di spazzare via l'assenza di anni.
L'asettica stanza dell'ospedale prenderà vita popolandosi di figure che arrivano dalla provincia dell'Illinois: alla protagonista non resterà che ascoltare dalla voce calma e rassicurante di sua madre, così diversa da come la ricordava,  il racconto delle disavventure dei suoi ex concittadini, persone che credeva di aver dimenticato, perché tornino a galla i dolorosi ricordi della sua infanzia. La miseria, gli abusi, il senso di inferiorità.
Il racconto diventa allora un patto di tregua, un modo per riannodare un filo spezzato, un legame sepolto dalle incomprensioni e dalla lontananza.
Ma come si parla alla propria madre quando il silenzio ha ricoperto anni di sofferenza e povertà, quando la tua vita è piena di non detti, quando la persona che avrebbe dovuto proteggerti è quella che ti ha ferito maggiormente?
Il passato è un fardello è troppo pesante. Eppure sua madre è lì accanto a lei, nel momento in cui ne ha più bisogno, senza allontanarsi né dormire mai.


Mi meraviglia come riusciamo a trovare modi per sentirci superiori a un'altra persona, o a un gruppo di persone. Succede dappertutto, di continuo. Comunque lo si chiami, a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare

Mi chiamo Lucy Barton è un romanzo breve, quasi asciutto, mai banale però . Solleva al contrario numerosi riflessioni sull'importanza della famiglia di origine, delle radici, di certi vuoti che non si placano mai.
Il dolore dei figli dura per sempre. Questo sembra essere il messaggio che Elizabeth Strout ci consegna.
L'amore tra una madre e i suoi figli è grande, grandissimo, immenso, ma anche imperfetto. Quando la tua vita è piena di verità taciute,  perdonare chi  al tempo stesso è sia la fonte del tuo dolore e delle tue insicurezze sia una persona che non puoi fare a meno di amare diventa un'impresa destabilizzante. Tuttavia fare pace con questa amara consapevolezza, accettare cioè l'idea che le persone non siano come noi le avremmo volute è un primo doloroso passo verso una vita serena e piena.



Indicazioni terapeutiche: per chi ha fatto pace con i fantasmi del proprio passato e ha deciso di guardare avanti.

Effetti collaterali: Come si conquista  la felicità se non ci è stato insegnato l'amore?
Attraverso il racconto di sé stessi e su sé stessi.
La protagonista di questo romanzo persegue la ricerca  del suo equilibrio per mezzo della passione per la scrittura. Perché come dice la Strout ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi. Tanto ne avete una sola.


lunedì 5 marzo 2018

Presentazione del libro "L'eroico sacrificio di Delia e Maria a Sant'Anna di Stazzema" di Giuseppe Vezzoni


Da sinistra a destra: Giuseppe Vezzoni, Elisa Bandelloni, Maria Bresciani e Liliana Mancini


Questo volume è l'adattamento di una lettura scenica scritta da Giuseppe Vezzoni con il titolo Il bolgetto del Mulino delle Gobbette, interpretata dalla Compagnia Coquelicot Teatro sulla piazza della chiesa di Sant'Anna il 6 agosto 2016. L'autore ha poi deciso di riprendere il testo dell'opera teatrale e adattarlo in forma di racconto per far sì che giungesse al maggior numero di persone possibile.
La voglia di rendere nota questa storia nasce dal cruccio della signora Maria Bresciani, moglie del superstite Angiolo Berretti, fratello minore di due ragazze trucidate a Sant'Anna, convinta che la vicenda della loro morte avrebbe meritato maggiore considerazione.
Il testo riporta infatti un episodio, sconosciuto ai più, accaduto durante la strage nazifascista di Sant'Anna di Stazzema: si tratta del sacrifico di due sorelle, Maria Giovanna e Adelia Berretti, di 23 e 19 anni, che si prodigarono la mattina del 12 agosto 1944 ad avvertire quanta più gente possibile dell'imminente arrivo dei tedeschi, permettendo così a moli compaesani di mettersi in salvo. Il loro altruismo costò loro la vita, poiché furono uccise da una pattuglia di nazifascisti in località di Mulini di Sant'Anna.

Un giorno che era nato per essere mirabilmente luminoso e azzurro e che invece fu segnato dal ghigno della morte e dalla sua inesorabile falce affondata nell'erba ancora vergine, nei corpi innocenti di tanti bambini, troppi per qualsivoglia carneficina, ma non per quella nazifascista.

Alla presentazione del libro hanno partecipato, oltre all'autore, due donne che si sono fatte portatrici di due testimonianze importanti: Liliana Mancini, che all'epoca aveva solo 22 mesi ed era nascosta con i fratelli in un metato nel bosco, la figlia più piccola dei mugnai Egisto Mancini e Maria Pardini, uccisi anche loro in località Mulini di Stazzema, e Maria Bresciani, vedova di Angiolo Berretti, fratello più piccolo delle due sorelle protagoniste del racconto.
Dalla loro viva voce, a tratti rotta comprensibilmente dall'emozione, è emerso il dolore per una ferita che il tempo non può sanare, di un orrore, che a 74 anni di distanza, lascia tuttora atterriti. Purtroppo quello che accade è che si parli più spesso dei carnefici che delle vittime. Allora il ricordo di quell'intero paese raso al suolo dalla bestialità della guerra, da uomini carnefici di altri uomini, resta solo nella memoria dei pochi sopravvissuti, dei familiari superstiti che hanno dovuto imparare a convivere con un'assenza talmente forte da annullare ogni altra presenza.
Credo che, oggi come allora, parlare di Sant’Anna significhi prima di tutto onorare la memoria di quelle vittime, vecchi, donne e bambini, trucidati orrendamente. Le indagini della procura militare di La Spezia hanno recentemente stabilito che non si trattò di una rappresaglia  ma di un atto che potremmo definire oggi terroristico. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

A Sant'Anna la sera quel sabato 12 agosto 1944 cancellò ogni desiderio di inseguire con lo sguardo le stelle cadenti nel mare. Restavano solo le lacrime, la disperazione, l'incredulità di fronte a quello scempio, lo sgomento, insieme alla maledizione contro chi li aveva costretti a subire una sorte tanto tragica e devastante. Gli scampati ebbero subito la consapevolezza che la loro sopravvivenza fosse una vera e propria ingiustizia, un castigo invece che un favore del destino.

L'altra questione che vorrei sottolineare è lopportunità di presentare questo libro oggi, vicino alla data dell’8 marzo, festa della donna. Oggi molti si chiedono il senso di questa ricorrenza. La festa della donna è, a mio avviso, la presa di coscienza che c'è ancora tanto da fare sul cammino della parificazione tra uomini e donne, relativamente al tema della conciliazione lavoro e famiglia, ma non solo. Troppe donne vivono situazioni di abusi e finiscono uccise da coloro che da compagni di vita si sono trasformati nei loro carnefici.



La giornata della donna significa parlare di coraggio, di voglia di autodeterminarsi, di indipendenza.
Quest’opera racconta appunto una storia di eroismo e di sacrificio che ha come protagonista due ragazze. Due ragazze normali che, in questo senso, mi ricordano un'altro personaggio femminile, quello di uno dei libri più importanti della narrativa del dopoguerra, L’Agnese va morire di Renata Viganò, una testimonianza della resistenza vissuta da una persona comune, una donna appunto.
L’Agnese, come lascia presagire il titolo, morirà catturata durante un rastrellamento. Lo stesso accadde per Delia e Maria, che trovano la morte in un mulino, uccise perché non restarono nascoste, ma si adoperarono spinte dal desiderio di proteggere la propria famiglia.
L'altra figura femminile di spicco di questa storia è Anna, la madre delle due sorelle, che impotente,  le vide uscire dal loro nascondiglio e non riuscì a proteggerle come avrebbe voluto, impegnata a tenere nascosto il piccolo Angiolo, appena bambino.
A lei toccherà la sorte più dura, cioè quella di sopravvivere alla morte delle proprie figlie. Sarà proprio lei, nell'ultimo capitolo dell'opera, a lasciarci la sua ultima riflessione: di fronte ad una natura ormai totalmente indifferente, così come era stata silenziosa spettatrice degli scontri tra alleati e nazi-fascisti, non c'è mai pace da un dolore così devastante, non ci si abitua mai.
L'unica speranza è affidata alle nuove generazioni, perché non dimentichino. Perché in loro non si spenga mai la sete di giustizia e verità.




Giuseppe Vezzoni riempe i vuoti delle testimonianze con una licenza poetica delicata e potente allo stesso tempo, ricorrendo alla forza espressiva del dialetto versiliese. Come nei suoi libri precedenti, l'autore riesce in un'impresa degna di merito: ridare la voce a coloro a cui era stata strappata con una brutalità che lascia ancora oggi atterriti.


sabato 3 marzo 2018

Stoner di John Williams


Si dice che Dio stia nei dettagli. Che la grandezza si nasconda nelle pieghe più umili nella vita, nei dettagli appunto, che restano invisibili agli occhi disattenti della maggior parte delle persone.In questo senso, Stoner è un romanzo quasi perfetto, perché seppur apparentemente incentrato su una storia banale, una vita piatta, costruisce un universo denso di significati, catapultandoci nel mondo interiore del protagonista.  Se raccontare in maniera epica una vita avventurosa è difficile, come si può definire la capacità di glorificare una vita ordinaria? Il genio di un fuoriclasse?
Di certo c'è del talentuoso in John Williams, che riesce nella mirabolante impresa di dare vita ad un romanzo destinato a diventare un classico della letteratura americana. Uscito più di cinquanta anni fa, nel 1965, questo libro è stato ripubblicato nel 2013, diventando, grazie al passa-parola,  un caso editoriale, tanto che Tim Kreider sul New Yorker lo ha definito il "più grande romanzo americano di cui non avete mai sentito parlare".

La Verità, il Bene, il Bello. Sono appena dietro l’angolo, nel corridoio accanto; sono nel prossimo libro, quello che non hai ancora letto, o sullo scaffale più in alto, dove non sei ancora arrivato. Ma un giorno ci arriverai.

William Stoner è un semplice ragazzo di campagna, figlio di contadini nel Missouri, destinato a spaccarsi la schiena, come suo padre prima di lui, piegato su un arido pezzo di terra. Iscritto alla facoltà di Agraria, rimane folgorato dall'amore per la letteratura inglese e, unico colpo di testa della sua vita, decide di abbandonare la strada che qualcun'altro aveva tracciato per lui per intraprendere la carriera di ricercatore universitario.

A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.

L'intera esistenza di Stoner sarà in realtà condannata ad una sorta di limbo, una zona grigia, come se il protagonista non fosse capace di scrollarsi di dosso la mediocrità e la malinconia che lo affliggono, come una strana malattia da cui non riesce a guarire.
Tutto lo sviluppo di romanzo è caratterizzato infatti dalla forte contrapposizione tra il mondo interiore del protagonista, ricco di sfaccettature, e l' apparente distacco con cui vive ogni tappa della propria vita.  Stoner sopravviverà ad un matrimonio profondamente infelice, alla stroncatura della sua carriera accademica, all'impossibilità di costruire un rapporto con la figlia. Si farà scivolare addosso l'odio della moglie e le scorrettezze dei colleghi, armato soltanto di un ostinato stoicismo e di un fatalismo, che affondano le radici in una caparbia etica del sacrificio, eredità dei suoi antenati.

Bisogna innamorarsi, per capire un po’come si è fatti.

Stoner è un personaggio che commuove, impietosisce, scuote. Che irrita per la pacata rassegnazione con cui affronta la vita.  Stoner è il nostro vicino di casa, la persona che fa la fila alla posta accanto a noi, il vecchio seduto da solo al giardinetto. Il prototipo dell' uomo ordinario che vive una vita ordinaria del tutto priva di qualsiasi colpo di scena.
Ma se si è capaci di grattare la scorza della superficie c'è molto di più. Stoner è anche passione intellettuale, dedizione al lavoro, coerenza e senso di responsabilità. Stoner è la sensibilità e la capacità di guardare il modo e di emozionarsi, di capire, in fondo, che la nostra vita è tutto qui.
Stoner siamo un po' tutti noi.


Indicazioni terapeutiche: per chi crede che la vera impresa eccezionale sia essere ordinari.

Effetti collaterali: Stoner rinuncia all'unico amore che abbia mai conosciuto. Lo fa senza rancore né acredine. Anzi il ricordo di quel germoglio di felicità lo accompagnerà per il resto della sua vita.
Può l'amore di pochi mesi bastare per un 'esistenza intera?
Il protagonista non rimpiangerà mai il suo passato, né si farà domande.
D'altra parte, questo è un romanzo che non da' risposte, ma che lascia al contrario tanti interrogativi inespressi, spingendo ciascun lettore a riflettere sul modo in cui conduce la propria esistenza.