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lunedì 5 marzo 2018

Presentazione del libro "L'eroico sacrificio di Delia e Maria a Sant'Anna di Stazzema" di Giuseppe Vezzoni


Da sinistra a destra: Giuseppe Vezzoni, Elisa Bandelloni, Maria Bresciani e Liliana Mancini


Questo volume è l'adattamento di una lettura scenica scritta da Giuseppe Vezzoni con il titolo Il bolgetto del Mulino delle Gobbette, interpretata dalla Compagnia Coquelicot Teatro sulla piazza della chiesa di Sant'Anna il 6 agosto 2016. L'autore ha poi deciso di riprendere il testo dell'opera teatrale e adattarlo in forma di racconto per far sì che giungesse al maggior numero di persone possibile.
La voglia di rendere nota questa storia nasce dal cruccio della signora Maria Bresciani, moglie del superstite Angiolo Berretti, fratello minore di due ragazze trucidate a Sant'Anna, convinta che la vicenda della loro morte avrebbe meritato maggiore considerazione.
Il testo riporta infatti un episodio, sconosciuto ai più, accaduto durante la strage nazifascista di Sant'Anna di Stazzema: si tratta del sacrifico di due sorelle, Maria Giovanna e Adelia Berretti, di 23 e 19 anni, che si prodigarono la mattina del 12 agosto 1944 ad avvertire quanta più gente possibile dell'imminente arrivo dei tedeschi, permettendo così a moli compaesani di mettersi in salvo. Il loro altruismo costò loro la vita, poiché furono uccise da una pattuglia di nazifascisti in località di Mulini di Sant'Anna.

Un giorno che era nato per essere mirabilmente luminoso e azzurro e che invece fu segnato dal ghigno della morte e dalla sua inesorabile falce affondata nell'erba ancora vergine, nei corpi innocenti di tanti bambini, troppi per qualsivoglia carneficina, ma non per quella nazifascista.

Alla presentazione del libro hanno partecipato, oltre all'autore, due donne che si sono fatte portatrici di due testimonianze importanti: Liliana Mancini, che all'epoca aveva solo 22 mesi ed era nascosta con i fratelli in un metato nel bosco, la figlia più piccola dei mugnai Egisto Mancini e Maria Pardini, uccisi anche loro in località Mulini di Stazzema, e Maria Bresciani, vedova di Angiolo Berretti, fratello più piccolo delle due sorelle protagoniste del racconto.
Dalla loro viva voce, a tratti rotta comprensibilmente dall'emozione, è emerso il dolore per una ferita che il tempo non può sanare, di un orrore, che a 74 anni di distanza, lascia tuttora atterriti. Purtroppo quello che accade è che si parli più spesso dei carnefici che delle vittime. Allora il ricordo di quell'intero paese raso al suolo dalla bestialità della guerra, da uomini carnefici di altri uomini, resta solo nella memoria dei pochi sopravvissuti, dei familiari superstiti che hanno dovuto imparare a convivere con un'assenza talmente forte da annullare ogni altra presenza.
Credo che, oggi come allora, parlare di Sant’Anna significhi prima di tutto onorare la memoria di quelle vittime, vecchi, donne e bambini, trucidati orrendamente. Le indagini della procura militare di La Spezia hanno recentemente stabilito che non si trattò di una rappresaglia  ma di un atto che potremmo definire oggi terroristico. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

A Sant'Anna la sera quel sabato 12 agosto 1944 cancellò ogni desiderio di inseguire con lo sguardo le stelle cadenti nel mare. Restavano solo le lacrime, la disperazione, l'incredulità di fronte a quello scempio, lo sgomento, insieme alla maledizione contro chi li aveva costretti a subire una sorte tanto tragica e devastante. Gli scampati ebbero subito la consapevolezza che la loro sopravvivenza fosse una vera e propria ingiustizia, un castigo invece che un favore del destino.

L'altra questione che vorrei sottolineare è lopportunità di presentare questo libro oggi, vicino alla data dell’8 marzo, festa della donna. Oggi molti si chiedono il senso di questa ricorrenza. La festa della donna è, a mio avviso, la presa di coscienza che c'è ancora tanto da fare sul cammino della parificazione tra uomini e donne, relativamente al tema della conciliazione lavoro e famiglia, ma non solo. Troppe donne vivono situazioni di abusi e finiscono uccise da coloro che da compagni di vita si sono trasformati nei loro carnefici.



La giornata della donna significa parlare di coraggio, di voglia di autodeterminarsi, di indipendenza.
Quest’opera racconta appunto una storia di eroismo e di sacrificio che ha come protagonista due ragazze. Due ragazze normali che, in questo senso, mi ricordano un'altro personaggio femminile, quello di uno dei libri più importanti della narrativa del dopoguerra, L’Agnese va morire di Renata Viganò, una testimonianza della resistenza vissuta da una persona comune, una donna appunto.
L’Agnese, come lascia presagire il titolo, morirà catturata durante un rastrellamento. Lo stesso accadde per Delia e Maria, che trovano la morte in un mulino, uccise perché non restarono nascoste, ma si adoperarono spinte dal desiderio di proteggere la propria famiglia.
L'altra figura femminile di spicco di questa storia è Anna, la madre delle due sorelle, che impotente,  le vide uscire dal loro nascondiglio e non riuscì a proteggerle come avrebbe voluto, impegnata a tenere nascosto il piccolo Angiolo, appena bambino.
A lei toccherà la sorte più dura, cioè quella di sopravvivere alla morte delle proprie figlie. Sarà proprio lei, nell'ultimo capitolo dell'opera, a lasciarci la sua ultima riflessione: di fronte ad una natura ormai totalmente indifferente, così come era stata silenziosa spettatrice degli scontri tra alleati e nazi-fascisti, non c'è mai pace da un dolore così devastante, non ci si abitua mai.
L'unica speranza è affidata alle nuove generazioni, perché non dimentichino. Perché in loro non si spenga mai la sete di giustizia e verità.




Giuseppe Vezzoni riempe i vuoti delle testimonianze con una licenza poetica delicata e potente allo stesso tempo, ricorrendo alla forza espressiva del dialetto versiliese. Come nei suoi libri precedenti, l'autore riesce in un'impresa degna di merito: ridare la voce a coloro a cui era stata strappata con una brutalità che lascia ancora oggi atterriti.


venerdì 17 novembre 2017

Presentazione "Il cammino di Hamdan"

Noto sempre con dispiacere che alle presentazioni dei libri c'è sempre meno gente. D'altra parte l'Istat ha confermato che il numero di chi legge in Italia è in continuo ribasso: nel nostro Paese oggi ci sono oltre 4 milioni di lettori di libri in meno rispetto al 2010, senza considerare il fatto che nel 2016 sono circa 33 milioni coloro che non hanno letto nemmeno un libro di carta in un anno, cioè il 57,6% della popolazione.
Come dicevo tale disaffezione non dovrebbe stupirmi, invece mi intristisce ogni volta. Perché penso alle occasioni che le persone si perdono per conoscere, emozionarsi, ampliare i propri orizzonti.
Mai come questa volta  l'incontro con l'autore Hamdan Jewe'i ha rappresentato per me un'opportunità di riflessione come raramente capitano: impossibile non rimanere colpiti dalla sua positività, dalla sua fiducia nel prossimo e dalla sua convinzione di poter sconfiggere i preconcetti e
Anna Vezzoni che ha introdotto l'incontro ha usato il termine resilienza.
La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. Di costruire un cammino a partire dal dolore, senza rinnegare il passato, senza farsi consumare dall'odio.

Imparare a scrivere è stata una conquista molto importante, per me, una sorta di innamoramento per i segni, le decorazioni. La mia bella lingua con le sue tante forme apriva in me nuovi spazi, nuovi sogni. Il desiderio di comunicare si faceva bruciante e in poco tempo ricadevo nella disperazione dell’isolamento. Isolamento è proprio il titolo di una delle mie liriche: infatti, dopo aver imparato a scrivere ho iniziato a esprimere il mio dolore con i versi: poesie tristissime, apoteosi del mio dolore. Ne ricordo anche un’altra “L’ultimo momento”, scritta in occasione del mio tentativo di suicidio, a 8 anni.

Il cammino di Hamdan parte da lontano, da una stanza buia in una casa in un campo profughi a Betlemme, una stanza che è stata tutto il suo mondo per i suoi primi 11 anni. Hamdan nasce "diverso", con una disabilità che la sua famiglia, vittima essa stessa di una mentalità retrograda, non accettava. Nella società palestinese un figlio disabile è il frutto di una colpa, una punizione divina, un peso di cui farsi carico, uno stigma davanti agli occhi della comunità.
Per questo Hamdan è stato per anni una vergogna da dover celare agli occhi della gente, tanto che nessuno sapeva della sua esistenza. Fino al giorno in cui ha avuto la forza di imporsi e rompere le catene del suo isolamento per uscire nel mondo e frequentare gli altri bambini.
Da allora sono passati anni, anni che Hamdan ha speso in giro per il mondo testimoniando la sua esperienza e battendosi per i diritti dei disabili, affinché possano avere non solo le cure mediche di cui hanno bisogno, ma il riconoscimento sociale che meritano.
Il suo viaggio l'ha portato fino In Italia, dove ha conosciuto Franca Dumano, a cui ha raccontato la sua storia: è nato così il libro Il cammino di Hamdan, un affresco sullo straordinario percorso di liberazione compiuto da un ragazzo palestinese, imprigionato sin dalla nascita, da muri, porte sbarrate, steccati, filo spinato.

Negli anni della prigionia, non sapevo veramente come passare il tempo ed ero davvero triste. Quando ripenso alla mia infanzia mi stupisco di aver trovato la forza di superare la noia e la disperazione di quegli anni. Ho vissuto momenti davvero terribili, imprigionato nel mio corpo e recluso nella stanza della vergogna.

Una frase di Hamdan mi ha colpito: "Anche i disabili sono abili". Poche parole che racchiudono tutta la forza e l'energia di questo uomo che ha saputo usare il dolore non solo come carburante per il proprio percorso di crescita ma anche per lottare affinché questo cambiamento investa la società tutta, i cosiddetti "normodotati", che troppo spesso si limitano a voltare la testa dall'altra parte.




La storia di Hamdan è ancora più stupefacente se si pensa il luogo in cui è nato, la Palestina, in perenne conflitto con Israele da cinquanta anni. Palestina che purtroppo oggi significa per molti solo campi profughi, intifada, check-point, kamikaze. Ma soprattutto vivere in questa terra flagellata da scontri continui signifca ancora più difficoltà per accedere alle cure di cui le persone con una disabilità hanno bisogno. Una vita difficile resa ancor più difficile.
Eppure non c'è traccia di livore né di rabbia nella voce di Hamdan. Non biasima né la sua famiglia, con cui oggi ha ottimi rapporti, né tantomeno semina parole di odio. C'è solo speranza. Quella di costruire con l'aiuto di tutti coloro che credono che una pacifica convivenza sia possibile un nuovo mondo, un nuovo modo di stare insieme, che non escluda ma includa, abili e disabili, palestinesi e israeliani.
Franca Dumano dialoga con Hamdan Jewe'i è un libro che testimonia la grande voglia di vivere del suo protagonista, una volontà tale da spazzare via ogni pregiudizio e fanatismo. Affinché la voglia di gettare un ponte sia più forte del rancore. Perché come diceva Gandhi occhio per occhio il mondo diventa cieco.


martedì 6 dicembre 2016

Presentazione del libro "Non faccio finta" di Laerte Neri


C'è ancora spazio nel mondo di oggi per la poesia?
Quella dei versi stampati sulla carta che fruscia, quella che, a dispetto della forma e dei tempi, tocca qualche corda dentro di noi?
Per Laerte Neri sì.
Nasce così Non faccio finta, una raccolta di poesie pubblicata da Marco Del Bucchia Editore che vuole prima di tutto creare un momento di incontro, un ponte tra le persone. 
Mentre scrivere un racconto presuppone più tecnica, più ragione  e meno pancia, la poesia è soprattutto metafora, un linguaggio primario e primordiale che può emozionare o meno, ma, in ogni caso, arriva subito.
La poesia diventa un mezzo per cogliere l'invisibile, un modo per mettere in prospettiva gli avvenimenti, le sensazioni, gli umori.
Il titolo dell'opera richiama il primo componimento, nel quale l'io lirico confessa tutti i suoi limiti e le sue idiosincrasie. Ma non c'è resa, solo la presa di coscienza che la ricerca di un senso è possibile, basta non smettere di cercare.

Non faccio finta
Non faccio finta di essere un intellettuale,
però so pensare.
Non faccio finta di stare male.
a volte sono giù.
Non faccio finta di essere più di quel che sono
ma neanche meno.
Non faccio finta di non capire,
a volte sono lento.
Non faccio finta di essere preparato,
a volte non ho voglia di studiare.
Non faccio finta di essere gentile,
e a volte non  lo sono.
Non faccio finta di aver voglia di andare,
con loro non ci so comunicare. (...)





Il libro si divide in quattro macrosezioni:

  • La verità è ancora più in là, che ha come tema centrale la possibilità legata alla giovinezza, dove tutte le scelte sono ancora in divenire.
  • Con la paura per mano, che coincide con l'entrata nell'età adulta, una fase più matura e contraddistinta dal superamento di tutte quelle paure che da nemiche si fanno compagne di viaggio, legate al giudizio altrui, all'imponderabilità del futuro che perde parte delle sue attrattive, al timore di non essere "abbastanza".
  • Fra papaveri e fiordalisi e Cavalleggeri ( o della risata segreta dei cavalieri e dei cavali sensibili), la terza  e la quarta sono sezioni più libere. Uno dei focus è l'amore, non inteso come mero trasporto passionale, ma come progettualità, come cammino costruito giorno per giorno insieme all'altro. Un presente dove il possibile è ancora possibile, dove il divertimento e la leggerezza non sono perduti per sempre ma rivivono grazie alle emozioni, alla capacità di sentire. Perché se non senti l'amore, non puoi nemmeno riceverlo.

Una raccolta che, come lo stesso autore ha sottolineato, non ambisce a mandare nessun messaggio preciso ma cerca di far emozionare, riflettere, ricordare. Non c'è infatti un modo giusto per leggere una strofa, un significato precostituito, un messaggio implicito.


Corbezzolo
Vorrei essere il corbezzolo
che sta di lato a casa mia,
che è rigoglioso di frutti
e di fiori,
che è bellissimo anche se nessuno lo guarda,
che dona i suoi frutti anche se nessuno li mangia,
che è in armonia con l'azzurro di casa mia
e con l'orto di mio nonno
e con tutte le cose.


C'è semmai la ricerca di una verità, che non è mai assoluta, ma soggettiva e momentanea. "Leggendo la poesia giusta, contatto una parte profonda di me che bussa per essere ascoltata. - scrive Laerte Neri nella sua prefazione  - Scrivendo la poesia che mi scorre vicina, provo a dare un'identità alla mia verità (e anche una verità alla mia identità). Ecco, la ricerca della verità è la mia poetica. In queste poesie ho cercato una verità."
La verità ha a che fare con l'essere vivi, col sentire e il sentirsi. 
La poesia, come la letteratura più in generale, è come uno specchio, dove ognuno scorge qualcosa che risuona nel proprio percorso.
Questo è il lascito di cui questa opera ci fa dono. 
Un impulso vitale.
Un modo per riconnettersi con una propria parte di sé, quella bambina, quella adolescenziale, quella immatura, quella vera. Quella che è andata perduta. O forse no. Forse è sempre stata lì.





lunedì 8 agosto 2016

Presentazione del libro "Città Versilia" di Ettore Neri

Mercoledì 3 agosto presso la Sala Cope di Querceta Ettore Neri ha presentato il suo ultimo libro Città Versilia, scritto con il contributo del prof. Giuseppe Cordoni, il manifesto della neo-nata associazione Versilia, su la testa.
All'incontro hanno partecipato, oltre agli autori, Riccardo Tarabella, sindaco di Seravezza, Giacomo Genovesi, assessore alla valorizzazione e promozione del territorio , Paolo Giannarelli, già sindaco di Seravezza e già assessore regionale, oltre al giornalista Gabriele Buffoni in qualità di moderatore.
Il sottotitolo dell'opera dice già molto: Schede, proposte, approfondimenti e lo statuto di una nuova associazione. Quest'opera, come lo stesso autore ha sottolineato, nasce, a seguito della campagna per le elezioni regionali del 2015, con lo scopo di fornire un valido strumento che racchiude un 'analisi e i relativi obiettivi per ciascuna area di competenza: dalle politiche ambientali a quelle per la salute, dalle politiche per la legalità e la sicurezza a quelle legate al turismo. 
La stessa struttura del libro rimanda ad un uso espressamente "pratico": è costituito infatti da schede, che possono essere aggiornate, riviste, aggiunte mano a mano che si procede nella progettazione di un brand Versilia, capace di andare oltre gli interessi particolari e costruire una visone unica che includa tutta la Versilia, quella del settore lapideo, quella del turismo balneare,  quella dei parchi, quella delle città d'arte e del Patrimonio dell'Unesco, che abbracci cioè l'intero territorio dal lago di Porta e quello di Massaciuccoli.


Come si fa?
Coltivando la volontà non solo di riscoprire il proprio territorio e di valorizzarlo ma soprattutto ripartendo dalla volontà di costruire una strategia complessa che veda la Versilia appunto come un soggetto unitario, qualcosa di più della semplice somma degli elementi che la compongono.
Nasce così l'associazione Versilia, su la testa che si prefigge come obiettivo quello di dare un importante contributo a questo cammino che è giusto all'inizio, senza rimandi a partiti o ideologie.
Che poi significa fare politica nel senso proprio del termine, politica intesa appunto come quel complesso di attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini. Il termine chiave è proprio comunità: significa ripartire cioè da quell'identità comune di un luogo per costruire una città abitabile.
Un progetto ambizioso all'interno di quello che il sociologo Marshall Mc Luhan chiamava il villaggio globale: l'ossimoro mcluhiano ha proprio lo scopo di mettere in luce il carattere profondamente contraddittorio di questa nuova condizione esistenziale. Il termine villaggio infatti rimanda ad un’idea di circoscritto, di sicuro, di conosciuto, mentre con l’aggettivo globale si fa riferimento al mondo intero. Di fatto, tuttavia il senso di comunità che contraddistingueva il villaggio è sparito. La globalizzazione, nata come un fenomeno prettamente economico che ha poi investito ogni dimensione politica, sociale, culturale, si è rivelata il grande bluff di questo nuovo millennio.
La caduta delle barriere tra gli Stati che ha permesso la libera circolazione delle merci, delle persone e delle idee invece di promuovere l’uguaglianza ha ulteriormente inasprito le differenze tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, tra chi ha tutto e chi non possiede nulla. Come sottolinea Giuseppe Cordoni: 

In ogni città mancata, è la moltitudine degli esclusi dei “cittadini mancati” a soffrire e a pagare il prezzo di inaudite differenze.

È da sottolineare l'apporto al libro del professor Cordoni, che evidenzia l'importanza di valori quali la bellezza, il senso civico, la condivisone.  
Civis e civitas. Come sottolinea il professore la parole sono come pietre ed è importante scegliere ed usare quelle giuste: la parola città deriva dal latino civitatem, accusativo di civitas, mentre il sostantivo civitas a sua volta proviene da civis, che significa cittadino. Civitas è una parola dal significato più politico che geografico, che indica la condizione dell'essere cittadino e allude quindi, in ultima analisi, alla volontà di costruire un nuovo modello di città che non può prescindere dal senso civico di ogni singolo individuo.


Ettore Neri
Diventa di fondamentale importanza riscoprire il valore del bene comune e quello di un progetto che mira a fare ella coesione fra le sue parti un primario valore fondativo. In un quadro politico-istituzionale che vede i Comuni perdere sempre più potere e mezzi per incidere sulla realtà del territorio che amministra, l'unico futuro auspicabile è quello che vede la Versilia costituirsi come un soggetto unico in grado di dialogare al tavolo dei grandi e di far pesare il proprio potere politico. 
Non si tratta tuttavia un processo di tipo top-down ma bottom-up, di un "sentire" che non si può costruire a tavolino. Il cambiamento deve scaturire scaturisce dai cittadini stessi, chiamati ad abbandonare le proprie posizioni campanilistiche e imparare a ripensarsi come abitanti non di un paese o di un comune, ma di una città del futuro, di un sogno che forse un giorno si concretizzerà se coloro che l'hanno sognato saranno capaci di tradurlo in realtà, un sogno dal nome Città Versilia. 
Si tratta di un'utopia? Forse.
Ma come rimarca la citazione di Kant, riportata all'inizio del libro, tratta da «Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?» del 1784:

L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.

Sapere aude significa, in ultima analisi, pensare con la propria testa, avendo il coraggio, ed è proprio il caso di chiamarlo così, di sfidare il sentire comune e far avanzare non solo noi stessi, ma anche la comunità in cui viviamo.



venerdì 6 maggio 2016

Presentazione libro "Fame di Guerra. La cucina del poco e del niente"

Sabato 30 aprile presso la Sala Cope di Querceta si è tenuta la presentazione del libro di Simonetta Simonetti Fame di Guerra. La cucina del poco e del niente, edito dalla casa editrice Tra le righe libri di Lucca.
La casa editrice, come ho già avuto modo di ricordare, nasce con la "missione" di pubblicare libri di memorie, diari, saggi e documenti per preservare inalterata e viva la ricerca storica e l'interesse per le radici della nostra società.
Questa opera nasce dalla ricerca dell'autrice che ha voluto ripercorrere la storia della cucina italiana in una fase storica di eccezionalità come le due grandi Guerre Mondiali e il regime fascista, periodo che è coinciso con l'inizio del percorso dil emancipazione della figura femminile, capace di uscire dal ruolo secondario in cui era stata relegata per secoli.

A partire dal 1915 infatti, le donne non solo si  sono sostituite nei lavori agricoli gli uomini, chiamati al fronte, ma soprattutto hanno avuto l'arduo compito di riuscire ogni giorno a sfamare la propria famiglia con quel poco che era possibile reperire.
Le massaie furono infatti chiamate in prima fila a evitare sprechi e inventare la cucina del riuso e del riciclo. Nulla si doveva buttare. Tutto era buono per altri manicaretti. 
Da qui il titolo la cucina del poco e del nulla.



Con il fascismo venne introdotta l'autarchia: il regime mirava a raggiungere l’autosufficienza economica producendo nell'ambito del territorio nazionale i beni di consumo e limitando o annullando gli scambi con l’estero. Furono inaugurati gli orti di guerra sostituendo il té con il carcadè, il Caffè con il Caffesol, una sorta di miscela marroncina che nulla manteneva dell’aroma proprio del caffè, e la pasta, dopo una forte propaganda, con il riso, prodotto dalle risaie italiane. Furono inoltre coniati slogan come “Chi mangia troppo deruba la Patria”, in un'ottica che mirava a diffondere l'idea della magrezza come emblema della salute.

Nel saggio si trovano inoltre numerose ricette ma non siamo di fronte ad un semplice libro di cucina, c'è molto di più.
L'autrice sceglie di parlare della figura femminile attraverso il tema del cibo, che da sempre ha una forte connotazione simbolica. Il cibo è amore, calore, famiglia.
Non è quindi un libro di donne per le donne ma una riflessione su come la nostra società sia cambiata negli ultimi cinquant'anni e come l'industrializzazione e il consumismo abbiano spazzato via la fame degli italiani, facendo dimenticare loro l'utile e, tutto sommato, “piacevole” cucina del poco e del senza.


mercoledì 24 febbraio 2016

Lezzo - I giorni dell'ospizio di Monica Dini

Sabato 23 gennaio presso l'Istituto Pio Campana a Seravezza si è tenuta la presentazione del libro Lezzo - I giorni dell'ospizio di Monica Dini, edito dalla casa editrice Tra le righe Libri.
All'incontro hanno preso parte, oltre all'autrice, Renzo Venturini, presidente dell'istituto, Beppe Tartarini, presidente del Circolo Culturale Sirio Giannini e Andrea Giannasi, a capo della casa editrice Tra le righe libri. 
Quest'ultima nasce nel 2013 a Lucca con il preciso scopo di riannodare e intrecciare i fili con il passato. Per questo ha una filosofia ben precisa: pubblicare libri di memorie, diari, saggi e documenti per preservare inalterata e viva la ricerca storica e l'interesse per le radici della nostra comunità.
Cosa c'è di più importante allora di mantenere viva la memoria dei nostri nonni? Come ha sottolineato Gianassi durante l'incontro, oggi assistiamo ad un progressivo depauperamento del bagaglio culturale dei giovani dal momento che il vincolo intergenerazionale si sta progressivamente perdendo. Se noi siamo quello che siamo stati cosa accade quando il legame con il nostro passato si spezza?
Lezzo è un libro che spinge a guardarci non solo dentro ma intorno, che ci obbliga a "vedere" gli anziani, gli infermi, i dimenticati. Non è un caso quindi che l'evento si sia tenuto in una RSA: il tema è uno di quelli che non piace, qualcosa di cui è meglio non parlare, mettere nel dimenticatoio. La vecchiaia. La malattia. La solitudine.

L'autrice Monica Dini

Monica Dini sceglie di raccontare proprio la vita dentro un "ospizio", anche se questa parola oggi preferiamo non usarla più. Residenza per anziani, si chiamano. Strutture dove molte persone, abbandonato tutto ciò che costituiva la loro vita, la casa, i ricordi, le abitudini, sono costretti ad "entrare". Un modo ipocrita per abbellire una realtà che di piacevole ha poco. 
Perché alla fine si erge una barriera, un muro invalicabile che sottolinea l'antitesi tra il dentro e il fuori: tra chi vive separato dal resto della società e gli "altri", il resto del mondo. Ma siamo sicuri che la vita è solo questa qua fuori?
Mio caro, l'unico tempo che conta è il presente, non c'è dato di cambiarlo, importa poco ciò che siamo stati, adesso puzziamo. Siamo i rappresentanti del disfacimento incurabile. Nessuno desidera che gli venga ricordato.
Grazie ad una carrellata di personaggi commuoventi nella loro semplicità e normalità tocchiamo con mano le storie dei degenti di Via dei Cipressi che, a discapito di  tutto, si attaccano alla vita che hanno: Ultimo che non vuole abbandonare le sue abitudini di contadino e coltiva i fagioli nella sua stanza, Inaco che non rinuncia alla lettura di Seneca, Anita che corre intorno all'ospizio interrogandosi sulla vecchiaia, Grazia che è non mai tanto bella come quando legge ai suoi pazienti.
Monica Dini ci regala un libro toccante che ci spinge ad interrogarci su che tipo di persone vogliamo essere: vogliamo stare di qua o aldilà di quel muro? Desideriamo voltarci dall'altra parte o affrontare la dura verità?
Perché la verità è che nessuno è nato vecchio. Fare finta che sia una realtà che non ci riguardi è solo un alibi, significa prima di tutto mentire a sé stessi.
In fondo come diceva Seneca ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.



giovedì 16 aprile 2015

Presentazione "La Linea Gotica. La Versilia e l'Apuania nella bufera. Ricordi e testimonianze"

Sabato 11 aprile presso la Sala conferenze della Croce Bianca di Querceta è stata presentato il libro “La Linea Gotica. La Versilia e l'Apuania nella bufera. Ricordi e testimonianze”, un volume voluto fortemente dal Circolo culturale Sirio Giannini, che nasce dalla volontà di testimoniare, attraverso le esperienze dirette coloro che l'hanno vissuto quel particolare periodo storico.
Alla presentazione hanno partecipato Ettore Neri, sindaco di Seravezza, Giuseppe Tartarini  presidente del circolo, Laerte Neri, scrittore e  autore teatrale e la sottoscritta, oltre ai curatori dell'opera Paolo Capovani Giorgio Salvatori. 
Quello che io e Laerte abbiamo cercato di fare, spero riuscendoci, è rileggere il libro in chiave attuale, sottolineando la sua contemporaneità. Come ha sottolineato Laerte, il passato è interessante quando ci parla, quando tocca delle corde del nostro essere, quando parla a noi, ma soprattutto di noi.
Queste testimonianze lo fanno. Un miscuglio di sentimenti annodati come una matassa che è difficile da sbrogliare: paura, speranza, morte, nascita, amore.
Il libro è venuto alla luce dopo quasi tre anni di ricerche condotte da un gruppo di lavoro del Circolo culturale Sirio Giannini composto da Paolo Capovani, Giorgio Salvatori, Mara Salini e Carlo Torlai. Ma questo lavoro ha coinvolto anche molte persone, sia per quanto concerne al ricerca del territorio, sia per la fase di editing.
I curatori si sono impegnati a ricercare testimonianze su quello che ha significato il periodo tra l' 8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Un periodo storico che è una parentesi buia, complicata, della storia del nostro Paese. Le zone della Versilia, così come i territori limitrofi di Montignoso, sono stati teatro di scontri, uccisioni, stragi ma anche della lotta di liberazione da parte dei partigiani e dalla voglia di ricominciare, sentimenti che hanno gettato i semi per la democrazia che è venuta dopo, nella quale oggi noi viviamo.
È nata così l'idea di redigere non tanto un saggio storico ma una raccolta di testimonianze, che altrimenti sarebbero rimaste solo racconti orali e sarebbero andate perdute.
Quando ho iniziato a leggere il libro sono stata immediatamente colpita dalla forza dei racconti, dal loro modo di essere al tempo stesso particolari e universali.
La vita di ogni persona è ordinaria e al tempo stessa mitica. Si vive, si muore. E nel mezzo accadono tante cose: ci innamoriamo, abbiamo figli, invecchiamo. Ogni giorno compiano decine di azioni, alcune probabilmente ci sembrano insignificanti. Ci svegliamo, facciamo la spesa, cuciniamo, andiamo a lavoro. Noi siamo importanti e anche le nostre vite lo sono, e vale la pena registrarne ogni dettaglio. Perché i dettagli sono importanti. Ecco cosa serve scrivere certe storie, affinché ci ricordino come abbiamo vissuto, come il mondo è passato davanti a noi. Proprio quello che hanno fatto i curatori di questo libro, e tutti coloro che hanno collaborato alla sua realizzazione: hanno fissato tutti i dettagli di tante vite, vite che hanno fatto la storia.

Giuseppe tartarini e la sottoscritta, Eisa Bandelloni, durante il mio intervento

E allora abbiamo di un bambino che inforca la bicicletta per cercare i genitori in una Marzocchino bombardata. Un ragazzo che lascia la sua casa a Stazzema con sua madre e sua sorella più piccola per rifugiarsi a Tonfano. La storia di una giovane che viene avvertita e probabilmente salvata, da un tedesco. Quella di Giancarlo che pascola la sua mucca, Colombina, e diventa una guida degli americani. Piccole storie di singole persone che non si sono accorte che stavano vivendo la Storia, quella con la "s" maiuscola, quella che si studia sui libri a scuola.
Questo libro, che raccoglie tante voci diverse, vuole essere più di una semplice testimonianza, aspira ad essere un ponte tra generazioni. Viviamo in un mondo che si è evoluto più negli ultimi 100 anni che nei mille anni anni precedenti. Un mondo più facile forse, più veloce. Un mondo lontanissimo da quello dei nostri nonni o padri. E proprio perché viviamo in un mondo che sembra lontanissimo da quello narrato in queste pagine, un mondo dominato dalla prosperità e dalle nuove tecnologie, dove nessuno di quelli nati dopo la fine del seconda guerra mondiale, sa cosa significhi patire la fame, vivere sotto i bombardamenti, lasciare la propria casa i propri averi per “sfollare” sulle montagne. Proprio perché sembrano storie di un mondo che non esiste più, la voglia di raccontare e ricordare non deve venir meno. Mi vien in mente la canzone di Guccini “Il vecchio e il bambino”.

I vecchi subiscono le ingiurie degli anni
non sanno distinguere il vero dai sogni
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero. 

Racconta la storia di un anziano che passeggia con un bambino e gli parla di com'era la vita quando era giovane. Parla di un passato che non ritornerà mia più. L'analogia è evidente: il vecchio e il bambino rappresentano, ciascuno con la propria identità e le proprie aspirazioni, il cammino stesso dell'uomo. Incerto, fragile, ma pieno di speranza quello del bambino, cadenzato, stanco, denso di nostalgia e di rassegnazione quello del vecchio. Il vecchio, prendendo per mano il bambino, lo conduce in un viaggio nel quale racconta se stesso e la sua visione del mondo, rendendolo così partecipe dell suo vissuto e delle speranze, di quello che è stato per lui ma anche di quello che potrebbe essere  per l'altro.

Un carro armato americano entra a Querceta per l'assalto alla Linea gotica
Questo è stato l'intento per cui è nato questo volume: far sì che le esperienze vissute dai nostri nonni, babbi, mamme, amici, non muoiano con loro ma sopravvivano nella memoria di chi resta. Che non si dimentichi che la nostra democrazia è nata dal sacrificio di tante persone. Che valori come la libertà, la pace, l'indipendenza non ci sono stati regalati. Che tutto ciò siamo non è altro che la somma delle azioni di chi è venuto prima di noi. Isaac Newton, scienziato e fisico vissuto tra il XVII e XVIII secolo, disse: “Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti.
Grazie a questo libro, pagina dopo pagina, ci immergiamo e immedesimiamo nella paura, nello sconforto,ma anche nel coraggio, nella voglia di lottare di quei giorni, ricordi che possono e devono diventare nuova linfa per combattere le battaglie di oggi, che anche se diverse forse non sono meno dure.

domenica 8 febbraio 2015

Presentazione libro "Chi manda le onde"

Ieri sabato 7 febbraio presso Villa Bertelli a Forte dei Marmi si è tenuta la presentazione del nuovo romanzo di Fabio Genovesi Chi manda le onde, edito da Mondadori.
Lo dico subito. Non so perché ma mi ero fatta l'idea che Fabio Genovesi fosse antipatico, uno di quelli che ha avuto successo e lo fa pesare agli altri.
Chiariamoci è bravo, molto bravo. Scrive bene, costruisce personaggi che vanno aldilà delle pagine, fa ridere e piangere. Insomma è uno di quelli che è partito dal nulla e ce l'ha fatta, un po' come uno di quegli svantaggiati di cui narra nei suoi libri. Uno che non ha frequentato né le scuole giuste, né aveva amici di famiglia influenti, però ce l'ha fatta lo stesso. Chapeau.

Invece mi sbagliavo.
Mano a mano che parlava, del suo libro e di sé stesso, sono rimasta colpita. Ho visto qualcosa. L'emozione che traspariva dalla sua voce, il modo in cui ricorreva spesso alle battute per smorzare la tensione, l'amore per la Versilia e per i suoi abitanti. Ho visto una persona dietro il personaggio.
Ma anche la naturalezza con cui affronta il suo lavoro di scrittore: niente sovrastrutture o atteggiamenti da intellettuale snob. Fabio (lo chiamo per nome come se fosse mio amico, potere dell'essere quasi concittadini!) inizia a  scrivere e le storie si dipanano da sole. Lo ha spiegato bene nell'incontro di ieri: come nella vita non si sa mai che piega prenderà il nostro destino, così funziona per le storie, non c'è una griglia predefinita a priori ma i personaggi "vivono", scegliendo la loro strada pagina dopo pagina.
Ho sempre pensato che le persone troppo intelligenti non si prendano troppo sul serio.
Fabio mi è sembrato così. Genuino.  Consapevole del suo talento ma anche del fatto che essere uno scrittore non ti renda migliore degli altri. Che esistono tante altre cose più stimolanti, emozionanti che leggere un libro, ma che leggere un bel libro è un viaggio che vale sempre la pena intraprendere.
E la sua ultima opera vale sicuramente la pena. Anzi probabilmente lo consacrerà come uno dei migliori scrittori italiani contemporanei.

La sala gremita di persone (Credits by Iris Tinunin)
Chi manda le onde  è un romanzo-mondo che intreccia la vita di numerosi personaggi che vivono in Versilia. C'è Luna, ragazzina albina costretta a convivere con la sua diversità,  suo fratello Luca, surfista rubacuori, e la loro mamma Serena, che li ha cresciuti da sola perché la vita le ha insegnato che non è fatta per l'amore. Ma accanto a loro si raggruppano altri naufraghi della vita: Sandro, quarantenne che vive ancora coi genitori, Marino e Rambo, che hanno imparato a vivere di espedienti. E poi ancora Zot, bimbo arrivato da Chernobyl e poi dimenticato, e Ferro, bagnino in pensione che vive in una casa asserragliato coi suoi fucili.
Formano una "banda" strana, che non ha ancora capito bene come sopravvivere ma che ci prova, come si impara a tenere la testa fuori dall'acqua per riprendere fiato quando le tempeste della vita ci sbattono qua e la'.
Durante la presentazione, Fabio ha letto alcuni passaggi del suo libro, alcuni esilaranti altri melanconici. Perché il suo libro è così commuovente e divertente al tempo stesso. Ma d'altra parte la vita è questa: ridiamo, piangiamo, e alla fine tutto quello che ci rimarrà saranno soltanto quegli istanti, tutto il resto sarà spazzato via dal tempo.

Fabio Genovesi intervistato da Michele Pellegrini (Credits by Iris Tinunin)

Non so se come dice Salinger quando l'avrete finito avrete voglia di alzare il telefono per parlare con Luna o Serena o Marino, ma di sicuro vorreste sedervi in cima al pontile con Fabio e i pescatori storici del Forte, osservando il mare, pronti ad accettare tutto quello che le sue onde lasceranno sulla riva della spiaggia.



lunedì 26 gennaio 2015

All'alba di San'Anna di Giuseppe Vezzoni



Sabato 24 gennaio alle ore 16 presso la Croce Bianca di Querceta, Giuseppe Vezzoni ha presentato i suoi due libri usciti nel 2014, in occasione del 70° anniversario della stragi nazifasciste in Versilia: All’alba di Sant’Anna e Un prete indifeso in una storia  a metà (per la recensione di questo libro potete consultare un mio precedente post: http://bit.ly/1AhMgV6)
all'incontro hanno partecipato oltre all'autore:

  • Ezio Marcucci, in qualità di moderatore;
  • Prof. Paolo Verona, che ha presentato il libro Un prete indifeso in una storia  a metà, di cui ha curato la seconda riedizione.
  • Don Danilo D'Angiolo, che ha ricordato il ruolo fondamentale di tanti esponenti del clero che nell'atto massimo di carità hanno dato la vita per proteggere le popolazione civili.
  • la sottoscritta, Elisa Bandelloni, che introdotto l'altro libro All’alba di Sant’Anna.
Copertina del libro, Il Margine edizioni.

Quest'incontro si è svolto quasi in concomitanza con la Giornata delle Memoria, la  ricorrenza internazionale che il 27 gennaio di ogni anno commemora le vittime dell'Olocausto.  Lo scopo è mantenere viva la memoria storica, perché come ricorda Paolo Schimdt, presidente dell'Anpi Trentino, nella prefazione del li libro “Un popolo che dimentica le tragedie del proprio passato è destinato a ripeterle”.
All’alba di Sant’Anna, scritto da Giuseppe Vezzoni in collaborazione con Graziella Menato per la casa editrice Il Margine di Trento, ripercorre la breve vita di Don Fiore Menguzzo, sacerdote tesino, medaglia d’oro al merito civile, raccontando la tragica giornata del 12 agosto 1944, quando i soldati tedeschi della 16a SS Panzergrenadier Division del generale Max Simon accerchiarono il paesino di Sant'Anna di Stazzema come rappresaglia contro i partigiani.
Quel giorno anche il giovane parroco don Fiore Menguzzo (28 anni) fu ucciso lungo una mulattiera da una scarica di colpi di arma da fuoco. Subito dopo fu incendiata anche la canonica, dopo che era stato ucciso anche il padre Antonio, di anni 65, la sorella Teresa (36 anni), la cognata Claudina Sirocchi (28 anni), le nipotine Colombina Graziella Colombini ed Elena Menguzzo, rispettivamente di 13 anni e di un anno e sei mesi.


Quando Giuseppe Vezzoni mi ha chiesto di presentare il suo libro, oltre al fatto di essere naturalmente contenta per questo suo atto di fiducia, mi sono subito chiesta cosa potesse significare oggi per me un libro come All’alba di Sant’Anna. E quando dico per me, intendo dire, in senso più generale, per la mia generazione e quelle successive, nate a cinquant'anni dalla fine dell'ultimo conflitto mondiale.
Le domande che mi frullavano per la testa erano più o meno queste: ha ancora senso parlare oggi della Resistenza, della guerra di liberazione, delle stragi nazifasciste? Ha senso parlare della tragica morte di Don Fiore Menguzzo e della sua famiglia?
La risposta che mi sono data è sì.
I racconti della guerra dei nostri nonni sono sempre più sfumati, storie di un mondo che non esiste più, come i sogni che svaniscono all'alba. Ma anche se per noi gli anni della dittatura fascista e della guerra sembrano lontanissimi, chi li ha vissuti non può dimenticare. E allora il compito di tutti noi è ricordare, ricordare perché certe episodi non accadano mai più.
La tragedia delle Mulina è stata a lungo dimenticata, sepolta tra le pieghe della storia. Proprio per questo il lavoro di Giuseppe Vezzoni, durato ben 23 anni, è ancora più degno di stima, perché non solo restituisce la dignità alle vittime ma perché ristabilisce la verità, la memoria storica.
Senza memoria non c'è coscienza.
Senza memoria non si dispone degli strumenti per interpretare la realtà che ci circonda.
Ricordare per non dimenticare quindi.
C'è chi a ricordare ci riesce meglio, come Giuseppe che ricostruisce, grazie alle testimonianze dirette e alla studio dei documenti, la vicenda della strage che la mattina del 12 agosto, ben prima del più tristemente famoso eccidio di Sant'Anna di Stazzema, colpì il piccolo paese delle Mulina.

Monumento a Mulina di Stazzema in ricordo del sacrificio di Don Fiore Menguzzo

La storia di Don Fiore parte da lontano, più precisamente da Tesino, picciolo paese del Trentino orientale. Antonio Menguzzo, padre di Don Fiore, agi inizi del '900 intraprende il lavoro di arrotino girovago con direzione Toscana. In seguito per l'esigenza di trasformare quel lavoro stagionale in fisso, Antonio matura la decisione di trasferirsi con la famiglia.
Fiore Menguzzo nasce il 16 maggio 1916, viene ordinato sacerdote il 23 giugno 1940 e alla fine del 1941 fu inviato come curato della cappellania di san Rocco a Mulina di Stazzema. Era un parroco bello, buono e ben voluto, come si evince dalle numerose testimonianze. Il 21 aprile 1943 Don Fiore viene inviato come cappellano di guerra in Albania dove rimarrà fino all'armistizio. Venne catturato e deportato in un campo di prigionia tedesco (non si è mai scoperto quale) in seguito allo sbandamento generale che colpì l'esercito italiano dopo l'8 settembre 1943, che fece sì che i militari italiani fossero giudicati traditori del Patto tripartito e deportati. Don Fiore durante la prigionia si ammala gravemente e solo grazie alla madre che si adopera per farlo tornare, e all'intercessione del suo vescovo monsignor Gabriele Vettori, riusce a tornare in Italia nel maggio 1944.
Nel breve periodo tra maggio e agosto 1944, si suppone che Don Fiore mantiene uno stretto rapporto coi partigiani, dai quali riceve dispacci e consegna informazioni. Nasconde, inoltre, le armi lasciate dai disertori. Senza dimenticare il suo importante ruolo di guida spirituale che accoglie e aiuta le popolazioni sfollate. Come tanti religiosi scelse di stare dalla parte dei deboli, delle popolazioni inermi, degli sfollati. Proprio il suo prodigarsi per la popolazione e per la lotta di liberazione lo porterà alla morte quella tragica mattina del 12 agosto 1944.
Ma il libro di Giuseppe Vezzoni non si limita solo a testimoniare la storia del sacerdote Don Fiore Menguzzo e della sua famiglia ma apre una riflessione più ampia sul periodo tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, la Resistenza.
Il lavoro ancora più difficile è stato scrostare quella patina di ipocrisia che circonda la Resistenza. Tornando al concetto di memoria storica: rispettare la storia vuol dire raccontarla nella sua interezza, con le sue luci e le sue ombre. La fine della guerra ha visto la contrapposizione di due schieramenti: da un lato chi ha attribuito tutti meriti della Resistenza ai partigiani comunisti esaltando il loro eroismo e tacendo i lati oscuri, le vendette personali e certe azioni opportunistiche; dall'altra parte la Democrazia Cristiana che ha preferito gettare nell'oblio tante vittime, negando loro la giustizia che meritano.
Nel mezzo ci sta chi come Giuseppe ha cercato e cerca nei suoi libri di ristabilire quale sia la verità.


Le domande senza risposta sono tante: perché i partigiani si spostarono nel Lucese lasciando scoperti i paesi di di Farnocchia e Sant'Anna?
Don Menguzzo è stato tradito da qualcuno che sapeva della sua collaborazione con i partigiani?
E soprattutto perché l'opinione pubblica, le amministrazioni, la classe politica hanno voluto ignorare la vicenda della strage delle Mulina?
Una risposta non c'è.
Resta la figura di un parroco che, come tutta la popolazione civile, diede il suo contributo “non armato” alla lotta di Liberazione, senza il quale la stessa lotta armata partigiana non avrebbe probabilmente  avuto ragione di esistere.
Un esempio di sacrificio in nome di quel bene comune di cui oggi, in tempi di corruzione dilagante e di antipolitica, abbiamo tanto bisogno.
Vorrei concludere con le parole della prefazione di Sandro Schimd:
"Con questo libro Giuseppe Vezzoni non si è limitato alla ricostruzione della storia dimenticata di don Fiore Menguzzo, che, grazie al suo lavoro, ha avuto il riconoscimento della medaglia d'oro. Fa una cosa, se possibile, più importante: ridà a don Fiore la parola. Don Fiore parla della sua storia e di quella suoi familiari come di una lezione che va letta al presente, che deve, entrare nelle coscienze dei giovani per combattere, con le armi della democrazia, per una società più giusta e un mondo migliore."


domenica 4 gennaio 2015

Presentazione "Il Natale di Alfonso. Una storia tutta italiana" di Giuseppe Vezzoni

Ieri sabato 3 gennaio alle ore 16, presso la sede della Croce Bianca di Querceta, si è tenuta la presentazione del libro "Il Natale di Alfonso. Una storia tutta italiana" di Giuseppe Vezzoni. Insieme all'autore hanno preso parte all'incontro Ezio Marcucci e il prof. Paolo Verona, che ha curato la revisione del testo.
Devo ammettere subito con rammarico che i partecipanti erano pochi. Dico con rammarico perché il racconto confezionato da Vezzoni non solo è stilisticamente di valore ma molto attuale, tanto che ha spinto tutti i presenti ad interrogarsi e mettersi in gioco, aprendo un vivace dibattito. Quello che mi auguro è che molti altri possano conoscere ed apprezzare quest'opera, regalandosi un'occasione di riflessione su cosa significhi oggi avere fiducia nel presente in una società che conosce una profonda crisi non solo economica ma anche valoriale.
Siamo all'antivigilia di Natale ma il protagonista, Alfonso, non ha nessuna voglia di festeggiare. Anzi, ha il cuore greve e riesce a stento a nascondere ai suoi familiari il suo turbamento. A due giorni da Natale ha ricevuto una terribile notizia: a causa della crisi l'azienda ha deciso di metterlo in mobilità. Alla paura di perdere il lavoro, l'unica fonte di reddito per la sua famiglia, si aggiunge la preoccupazione per il mutuo della casa. L'istituto bancario, così prodigo quando si era trattato di elargire il prestito, lo ha avvertito che in caso di insolvenza prolungata si andrebbe incontro al pignoramento della proprietà.
Alfonso si sente inutile, senza futuro né prospettive. Come farà a prendersi cura di sua moglie e dei suoi figli? Il tormento che lo assale è tale che arriva perfino a meditare di togliersi la vita.
Ma la notte di Natale è una notte speciale, la notte in cui tutto è possibile. Quando tutto sembra perduto, il miracolo tanto auspicato da Alfonso accadrà. 
Il racconto è dolce-amaro: amaro perché rispecchia la situazione socio-economica attuale, il clima di sfiducia in cui viviamo, ma al tempo stesso si tratta di una storia a lieto fine, come ci si aspetta da un racconto di Natale, che apre uno spiraglio, la necessità di sperare in un futuro migliore.
Come ha sottolineato il prof Verona, si riscontrano alcune analogie con la celebre opera di Dickens dedicata al natale "A Christmas Carol". Certo Alfonso è lontano anni luce dall'avido e ricco signor Scrooge ma come lui, proprio la notte di Natale, guardandosi nel cuore riscopre l'importanza dell'amore e della famiglia, principi di cui la società oggi ha più che mai bisogno. Solo infatti riscoprendo il valore dell'altro, della solidarietà, della comunanza si può far fronte a questa crisi, che non solo impoverisce, ma genera indifferenza e sospetto, mettendo gli uomini l'uno contro l'altro in una guerra di homo homini lupus.
Proprio questo è il messaggio che Vezzoni ha inteso inviare ai suoi lettori: come persone non dimenticate mai l'importanza della famiglia, perché nei momenti di difficoltà sono proprio gli affetti più cari a darci la forza per continuare a lottare; come lavoratori collaborate tra voi rinunciando agli egoismi personali in virtù del bene comune, affinché tutti abbiano di più.
Perché anche in situazioni di estrema solitudine e di scoraggiamento non bisogna mai perdere la speranza nella speranza (cit. Giuseppe Vezzoni), mai abbandonare la convinzione che non si è mai soli e che la vita vale sempre la pena di essere vissuta.