venerdì 26 maggio 2017

Margherita Dolcevita di Stefano Benni

Qualche chilo in più, un cuore che fa ta-tunf-tatà e un'assoluta capacità di osservare il mondo. 
Margherita Dolcevita è una ragazzina arguta e fuori dagli schemi, che abita con la sua famiglia, altrettanto strampalata, al confine tra città e campagna. C'è il nonno Socrate, che balla il tango con un fantasma, il fratello Clemente, adolescente fissato con il calcio e il sesso, Eraclito, il fratello minore genialoide, la mamma fissata con le telenovelas, il babbo con il suo ridicolo riportino. E poi Pisolo, il cane brutto ma buono.
Una famiglia sui generis il cui equilibrio viene spezzato dall'arrivo dei nuovi vicini, i Del Bene. 
Un bel giorno si materializza infatti un enorme cartellone ad oscurare le stelle ed eccolo là: un enorme cubo nero sorge dove prima c'erano solo campi.
I Del Bene stanno alla famiglia di Margherita quanto il sole sta alla luna: ricchi, iper-tecnologici, incuranti dell'ambiente e degli altri, pronti a schiacciare il diverso e il fastidioso.

I Del Bene stavano cercando di contagiarci con l'arma batteriologica del secolo: il tedio. Quella che ti convince che aspettare di vivere è meno faticoso che vivere.

Anche se pubblicato nel 2005 questo romanzo è, purtroppo, ancora molto attuale: la protagonista assiste inerme al disfacimento della sua famiglia, soggiogata dal fascino della tecnologia, della bella vita, dalla necessità di apparire più che di essere. Solo Margherita è immune al malefico influsso dei nuovi vicini e decide di indagare per scoprire cosa si nasconda dietro quella facciata esplicitamente fasulla.

Tutto il dolore del mondo si è seduto sul mio letto.

Margherita Dolcevita è una favola che mischia ecologia, ironia, coraggio e tolleranza. Una critica esplicita alla società dei consumi, alla cementificazione, all'omologazione, al razzismo.
Ma c'è molto di più.
Nascosto dietro l'umorismo, c'è una forma di poeticità immediata, nascosta in alcune espressioni, frasi, immagini. Una retorica della vita quotidiana che colpisce e spinge a riflettere. Un balsamo dell'anima che rende più facile ingollare i soprusi e le ingiustizie, come una pomata al mentolo che lenisce un po' il dolore ma non lo fa sparire del tutto.

Oppure, proprio perché simo piccola cosa, dobbiamo combattere per la nostra briciola di giustizia, o le stelle crolleranno?

Il finale volutamente ambiguo ha suscitato molte critiche. L'autore è stato volutamente criptico?
Io credo di sì. Credo sia il compito della letteratura incoraggiare i lettori ad interrogarsi, a dare una propria interpretazione, a riempire i non-detti.
Stefano Benni, a mio avviso, ci riesce.
Margherita Dolcevita sci lasca una grande lezione: era inutile lamentarsi, bisognava lottare. Se ti arrendi a quattordici anni, ti abituerai a farlo tutta la vita.

Indicazioni terapeutiche: per chi si inventa i nomi delle stelle, per chi ha un amico immaginario segreto, per chi tanta vita dentro che la morte, anche volendo, non potrebbe entrare.

Effetti collaterali: Io credo che esisteranno sempre l'intelligenza, la voglia di libertà, l'eros e le sale da ballo - ha detto il nonno - ma la speranza non mi sento più di pronunciarla.
È questo il pericolo più grande. Storditi dal tam-tam della pubblicità e dei social network,  affogati da un'iper-informazione che deforma più che informare, sempre più poveri, stanchi, intolleranti ci abbandoniamo, come pesci trascinati dalla corrente, e smettiamo di lottare. Di credere. E, peggio ancora, di sperare di poter fare la differenza.



mercoledì 24 maggio 2017

Forse un mattino andando in un'aria di vetro di Eugenio Montale

Forse un mattino andando in un'aria di vetro 

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


Un'epifania, una scoperta che colpisce l'io lirico all'improvviso, un "miracolo" che dura quanto un battito d'ali: la presa di coscienza del vuoto, del nulla,  dell'assurdità dell'essere e della natura apparente del mondo. Tutto ciò di cui l'uomo fa infatti conoscenza non è che un inganno, ma non per questo è meno reale.

Ma è solo un momento, uno smarrimento fugace, come un velo che si discosta per poco per poi tornare a coprire, con la sua natura illusoria, l'assenza di un senso profondo.

L'io poetante, dopo questa straordinaria esperienza, è costretto a portare dentro di Sé questa nuova consapevolezza, prigioniero del silenzio, senza poter più tornare alla condizione abituale degli "uomini che non si voltano". Il suo sentire e la conoscenza che ne è derivata si sono trasformate nella peggiore delle condanne.



mercoledì 10 maggio 2017

La più amata di Teresa Ciabatti


Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre.

Sta in queste poche righe l'essenza del romanzo, La più amata, un libro fortemente autobiografico nel quale la scrittrice Teresa ripercorre la sua infanzia, dominata dalla figura del padre, il Professor Ciabatti, primario di chirurgia dell'ospedale di Orbetello.
Ma chi era veramente Lorenzo Ciabatti?
Un luminare, un benefattore come lo ricorda la gente? O un uomo freddo e calcolatore, un massone?
Teresa Ciabatti scava nel suo passato, assemblando i ricordi come pezzi incompleti di un puzzle fino a delineare un quadro familiare atipico: un padre ingombrante amatissimo ma distante, una madre, Francesca Fabiani, fragile e incapace di tenere testa al marito, un fratello gemello, quasi inconsistente.

Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento. 
La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista: la cocca del babbo, la capricciosa bambina che nuota nella piscina della villa hollywoodiana al Pozzarello, la principessa del reparto che si fa viziare dai giovani medici ansiosi di mettersi in mostra. Una piccola diva prepotente per la quale il mondo non è mai abbastanza.
Fino almeno al compimento dei suoi dieci anni: ingrassa, imbruttisce, i genitori si separano, si trasferisce a Roma con la madre. Non è più l'invidiata figlia del Professore, svaniti i sogni di celebrità e gli scenari da film. Svanita anche l'enorme ricchezza dei Ciabatti, come inghiottita da un mostro mitologico.


Mi dispiace, Professore, tua figlia fa quello che vuole lei, non quello che dici tu. L’unica al mondo a non fare quello che dici tu.

Dal presente, una Teresa presuntuosa e sprezzante, madre anaffettiva che delega le cure della figlia alla tata moldava, si interroga sulla sua incapacità di amare, sul suo essere, a quarantaquattro anni, una donna incompiuta e incapace. Di non meritare il successo che ha avuto.
Non sono d'accordo.
La più amata è sicuramente un libro che divide, che fa discutere, che colpisce o delude. Un libro sulla famiglia, sulle crepe che ci lascia,  su come la vita sia una continua altalena tra illusione e disillusione. Un modo di scrivere spietato e aspro, al limite dello spiacevole, che gli è valso la candidatura come finalista al Premio Strega.

I critici l'hanno catalogato come autofiction, termine utilizzato per definire alcuni romanzi a metà appunto fra autobiografia e finzione, fra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e loro palese distorsione romanzesca. 
Il lettore è spiazzato:  non sa dove inizi la realtà e finisca la storia, nel dipanarsi di questo racconto scomodo che travalica il privato, tratteggiando un'Italia corrotta e corruttibile, affascinante e marcia allo stesso tempo.
Se il personaggio di Teresa Ciabatti sia piacevole o no, alla fine poco importa. Perché anche se snob, arrogante, cattiva con gli altri, e soprattutto con sé stessa, è stata capace di dare alla luce un libro coraggioso, capace di sfidare il timore del giudizio altrui senza alcuna remora.


Indicazioni terapeutiche: per chi è inclemente con sé stesso.

Effetti collaterali: in un'intervista l'autrice ha dichiarato: "Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire."
Forse diventare adulti significa soprattutto questo. Smettere di cercare un colpevole. Perdonare i propri genitori per non essere stati quello di cui avevamo bisogno. Perdonarsi per non essere stati abbastanza.


giovedì 4 maggio 2017

Requiem per un 'ombra di Mario Pistacchio e Laura Toffanello

Cercavo un libro diverso. E Requiem per un'ombra lo è.
Un noir che non parla solo di delitti e indagini, ma che fa riflettere sul senso profondo della vita, un inno alla libertà, pagata tuttavia a caro prezzo, quello della solitudine.

Al centro dell'intreccio narrativo c'è il protagonista, Sal Puglise, un investigatore privato prossimo alla pensione, un uomo a cui la vita ha assestato troppi colpi, un po' Marlowe, un po' detective all'italiana, che tra un pedinamento e un pestaggio, si rifugia nelle quattro chiacchiere con l'amico barista di sempre, un modo come un altro per fuggire l'isolamento e la malinconia sempre in agguato.
Lontani ormai i giorni di gloria, Sal è deciso a ritirarsi, magari in un paradiso ai Caraibi, il miraggio di una pace lontana e agognata. Per farlo ha bisogno però di un ultimo caso. Ed ecco che la sorte gli serve sul piatto d'argento l'occasione giusta: una rapina finita male.
Un gioco da ragazzi, almeno all'apparenza.


"Sai cosa dicono? Dicono che senza essersi mai viste, due persone consanguinee possano riconoscersi perfino in mezzo a una folla." Si era interrotta, nel telefono l’aveva sentita respirare a fondo. "Devi promettermi che non succederà. Non voglio che anche lei si innamori di te."

Mario Pistacchio e Laura Toffanello ci conducono mano nella mano, sulle note struggenti del jazz (del quale, mea culpa, non sono conoscitrice), nella pancia di un libro sulle illusioni e sul desiderio di riscatto che coinvolge e ti segue, anche dopo che l'hai chiuso.
È pur vero che la trama prosegue senza troppi scossoni, e che il personaggio principale ricalca il cliché del detective ruvido e solitario, ma non ho potuto non apprezzare le atmosfere di questo romanzo: una Torino fredda, un universo di individui imprigionati nel proprio senso di sconfitta, un intreccio di storie che denuncia la bassezza e l'egoismo imperanti. Su tutti spicca Sal, con la sua etica vecchio stile, la sua lucidità, la consapevolezza che non sconfina nell'autocommiserazione.
Il finale mi ha colpito. Non so ancora dire se in ben o in male.
Ma se cercate la redenzione questo romanzo non fa per voi.

Indicazioni terapeutiche: per chi ama il jazz, i pappagalli e i vecchi detective stropicciati.

Effetti collaterali: da animalista quale sono, mi è rimasto nel cuore, Orso, l'incrocio cane-lupo recluso al canile, alter ego di Sal, vecchio e spelacchiato, rassegnato ormai ad aspettare la morte.  Un animale in gabbia da una parte, un uomo prigioniero del proprio passato che aspira solo ad una seconda occasione.
Soltanto che talvolta non ci sono seconde chance.