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giovedì 16 aprile 2015

Presentazione "La Linea Gotica. La Versilia e l'Apuania nella bufera. Ricordi e testimonianze"

Sabato 11 aprile presso la Sala conferenze della Croce Bianca di Querceta è stata presentato il libro “La Linea Gotica. La Versilia e l'Apuania nella bufera. Ricordi e testimonianze”, un volume voluto fortemente dal Circolo culturale Sirio Giannini, che nasce dalla volontà di testimoniare, attraverso le esperienze dirette coloro che l'hanno vissuto quel particolare periodo storico.
Alla presentazione hanno partecipato Ettore Neri, sindaco di Seravezza, Giuseppe Tartarini  presidente del circolo, Laerte Neri, scrittore e  autore teatrale e la sottoscritta, oltre ai curatori dell'opera Paolo Capovani Giorgio Salvatori. 
Quello che io e Laerte abbiamo cercato di fare, spero riuscendoci, è rileggere il libro in chiave attuale, sottolineando la sua contemporaneità. Come ha sottolineato Laerte, il passato è interessante quando ci parla, quando tocca delle corde del nostro essere, quando parla a noi, ma soprattutto di noi.
Queste testimonianze lo fanno. Un miscuglio di sentimenti annodati come una matassa che è difficile da sbrogliare: paura, speranza, morte, nascita, amore.
Il libro è venuto alla luce dopo quasi tre anni di ricerche condotte da un gruppo di lavoro del Circolo culturale Sirio Giannini composto da Paolo Capovani, Giorgio Salvatori, Mara Salini e Carlo Torlai. Ma questo lavoro ha coinvolto anche molte persone, sia per quanto concerne al ricerca del territorio, sia per la fase di editing.
I curatori si sono impegnati a ricercare testimonianze su quello che ha significato il periodo tra l' 8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Un periodo storico che è una parentesi buia, complicata, della storia del nostro Paese. Le zone della Versilia, così come i territori limitrofi di Montignoso, sono stati teatro di scontri, uccisioni, stragi ma anche della lotta di liberazione da parte dei partigiani e dalla voglia di ricominciare, sentimenti che hanno gettato i semi per la democrazia che è venuta dopo, nella quale oggi noi viviamo.
È nata così l'idea di redigere non tanto un saggio storico ma una raccolta di testimonianze, che altrimenti sarebbero rimaste solo racconti orali e sarebbero andate perdute.
Quando ho iniziato a leggere il libro sono stata immediatamente colpita dalla forza dei racconti, dal loro modo di essere al tempo stesso particolari e universali.
La vita di ogni persona è ordinaria e al tempo stessa mitica. Si vive, si muore. E nel mezzo accadono tante cose: ci innamoriamo, abbiamo figli, invecchiamo. Ogni giorno compiano decine di azioni, alcune probabilmente ci sembrano insignificanti. Ci svegliamo, facciamo la spesa, cuciniamo, andiamo a lavoro. Noi siamo importanti e anche le nostre vite lo sono, e vale la pena registrarne ogni dettaglio. Perché i dettagli sono importanti. Ecco cosa serve scrivere certe storie, affinché ci ricordino come abbiamo vissuto, come il mondo è passato davanti a noi. Proprio quello che hanno fatto i curatori di questo libro, e tutti coloro che hanno collaborato alla sua realizzazione: hanno fissato tutti i dettagli di tante vite, vite che hanno fatto la storia.

Giuseppe tartarini e la sottoscritta, Eisa Bandelloni, durante il mio intervento

E allora abbiamo di un bambino che inforca la bicicletta per cercare i genitori in una Marzocchino bombardata. Un ragazzo che lascia la sua casa a Stazzema con sua madre e sua sorella più piccola per rifugiarsi a Tonfano. La storia di una giovane che viene avvertita e probabilmente salvata, da un tedesco. Quella di Giancarlo che pascola la sua mucca, Colombina, e diventa una guida degli americani. Piccole storie di singole persone che non si sono accorte che stavano vivendo la Storia, quella con la "s" maiuscola, quella che si studia sui libri a scuola.
Questo libro, che raccoglie tante voci diverse, vuole essere più di una semplice testimonianza, aspira ad essere un ponte tra generazioni. Viviamo in un mondo che si è evoluto più negli ultimi 100 anni che nei mille anni anni precedenti. Un mondo più facile forse, più veloce. Un mondo lontanissimo da quello dei nostri nonni o padri. E proprio perché viviamo in un mondo che sembra lontanissimo da quello narrato in queste pagine, un mondo dominato dalla prosperità e dalle nuove tecnologie, dove nessuno di quelli nati dopo la fine del seconda guerra mondiale, sa cosa significhi patire la fame, vivere sotto i bombardamenti, lasciare la propria casa i propri averi per “sfollare” sulle montagne. Proprio perché sembrano storie di un mondo che non esiste più, la voglia di raccontare e ricordare non deve venir meno. Mi vien in mente la canzone di Guccini “Il vecchio e il bambino”.

I vecchi subiscono le ingiurie degli anni
non sanno distinguere il vero dai sogni
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero. 

Racconta la storia di un anziano che passeggia con un bambino e gli parla di com'era la vita quando era giovane. Parla di un passato che non ritornerà mia più. L'analogia è evidente: il vecchio e il bambino rappresentano, ciascuno con la propria identità e le proprie aspirazioni, il cammino stesso dell'uomo. Incerto, fragile, ma pieno di speranza quello del bambino, cadenzato, stanco, denso di nostalgia e di rassegnazione quello del vecchio. Il vecchio, prendendo per mano il bambino, lo conduce in un viaggio nel quale racconta se stesso e la sua visione del mondo, rendendolo così partecipe dell suo vissuto e delle speranze, di quello che è stato per lui ma anche di quello che potrebbe essere  per l'altro.

Un carro armato americano entra a Querceta per l'assalto alla Linea gotica
Questo è stato l'intento per cui è nato questo volume: far sì che le esperienze vissute dai nostri nonni, babbi, mamme, amici, non muoiano con loro ma sopravvivano nella memoria di chi resta. Che non si dimentichi che la nostra democrazia è nata dal sacrificio di tante persone. Che valori come la libertà, la pace, l'indipendenza non ci sono stati regalati. Che tutto ciò siamo non è altro che la somma delle azioni di chi è venuto prima di noi. Isaac Newton, scienziato e fisico vissuto tra il XVII e XVIII secolo, disse: “Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti.
Grazie a questo libro, pagina dopo pagina, ci immergiamo e immedesimiamo nella paura, nello sconforto,ma anche nel coraggio, nella voglia di lottare di quei giorni, ricordi che possono e devono diventare nuova linfa per combattere le battaglie di oggi, che anche se diverse forse non sono meno dure.

martedì 31 marzo 2015

Omaggio a Sirio Giannini


Sabato 28 marzo ricorreva il 90° anniversario della nascita dello scrittore Sirio Giannini, nato a Seravezza nel 1925 e morto prematuramente all'età di 35 anni, in seguito ad un'operazione chirurgica.
Autore autodidatta, iniziò a dedicarsi alla scrittura verso i vent'anni, dopo aver esercitato numerosi mestieri come il  meccanico, il renaiolo e il bracciante agricolo nella pianura padana ( dove sfollò con la famiglia nel 1944 quando i tedeschi trasformarono la zona apuo-versiliese nella Linea Gotica) e l'informatore farmaceutico.
Nel 1956 pubblica nella prestigiosa collana La Medusa di Mondadori la raccolta di racconti Prati di Fieno che vince il Premio Firenze. Nel 1958 esce il romanzo La Valle bianca, con cui ottiene il Premio Hemingway, assegnatogli dalla giuria in cui spiccavano personalità quali Dino Buzzati, Remo Cantoni, Giacomo Debenedetti, Alberto Mondadori, Eugenio Montale, Fernanda Pivano ed Elio Vittorini. Al momento della sua morte, stava lavorando al romanzo Dove nasce il fiume, che viene pubblicato postumo nel 1961.
Giannini collaborava, inoltre,  con numerosi giornali e riviste e si era dedicato anche al cinema. Nel 1961 il cortometraggio I cavatori, di cui fu regista e sceneggiatore, fu premiato con l’Airone d’oro e il Trofeo Fedic nel concorso nazionale del film d’amatore di Montecatini Terme.
Nel 1983 un gruppo di estimatori di Sirio, tra cui Giuseppe Tartarini, Leopoldo Belli, Costantino Paolicchi, Paolo Capovani, Anna Guidi, Valeria Nicodemi, Alfredo Barberi e altri, con il sostegno dello stesso padre dello scrittore, Gino, iniziano a lavorare insieme con lo scopo far conoscere le opere di questo giovane autore seravezzino, che sembrava fosse stato dimenticato. In seguito, si fece largo l'idea che occorresse una struttura più organizzata, che potesse farsi anche promotrice di attività culturali sul territorio, sempre nel nome di Sirio. Nel 1986 si costituisce così ufficialmente il Circolo Culturale Sirio Giannini.
Grazie, inoltre, al generoso contributo della famiglia Giannini nel 1985 viene istituito il Premio Letterario I ragazzi raccontano, a scadenza biennale , che coinvolge gli allievi degli istituti scolatici della Scuola Secondaria di primo e secondo grado del territorio versiliese.

Copertina del romanzo La Valle bianca edito nel 1958 da Mondadori

Sirio Giannini resta uno degli scrittori più importanti a cui la nostra terra, la Versilia, abbia dato i natali. La sua opera più conosciuta è il romanzo La Valle bianca.
La Valle bianca è un'opera unica nel suo genere, che descrive con realismo e sentimento il mondo dei cavatori, come nessun altro autore ha mai saputo fare. Un mondo duro dove le buone giornate sanno di pane, e la fatica si mescola allo scintillio della luce che si rifrange sul bianco del marmo. Ma le brutte giornate si pagano a caro prezzo: penetrare i misteri della montagna può costare la vita.
Il romanzo racconta la storia di Stefano, che dopo aver fatto fortuna in città, torna a Seravezza con l'intenzione di comprare un terreno per dare vita ad un agrumeto sulle colline di Corvaia. 
Il racconto si apre con toni dolci, quasi bucolici, con la volontà del protagonista di tornare a casa e godersi una vita tranquilla, ma la mancanza di lavoro e il disagio in cui si trovano i suoi amici e concittadini lo spingeranno a costituire una cooperativa per riaprire la cava di sua proprietà.
Artefice di questo cambiamento è Giulio, il cugino, che, forte della sua giovane età e del suo entusiasmo, sogna di sfuggire allo sconforto in cui la condizione di disoccupato lo ha gettato.
Lo scrittore costruisce così l'antitesi trai due personaggi principali: da una parte Stefano, un uomo disarmato, la cui voglia di lottare si è consumata nelle delusioni ricevute, dall'altra Giulio, che combatte per non essere sconfitto.

Liazztura Monte Altissmo 1908 

Giannini apre al lettore il mondo dei cavatori, la Valle Bianca: la fatica del lavoro, le strade impervie e polverose, il sole che illumina il baluginio del marmo, la fatica e la soddisfazione di trasportare i blocchi a valle. Un realtà che non ammette distrazioni, perché lassù in cava ogni uomo mette la sua vita nelle mani degli altri, e solo la fiducia nell'altro può fare la differenza.
Pagina dopo pagina, lo stile cambia, diventa più asciutto, essenziale, quasi ad imitare il carattere dei cavatori, uomini dal carattere marmoreo e di poche parole. L'autore ci accompagna, mano a mano, lungo un sentiero che si inerpica tra sogno e realtà, tra desiderio di pace e lotta per la sopravvivenza.
Giannini tratteggia un affresco della Versilia degli anni '50, un inno alla sua terra, dove si mescolano amore  e morte, realismo e socialismo, consegnandoci un romanzo che, come ogni classico, è sempre attuale. Un elogio alla dignità del lavoro e al senso di responsabilità che gli uomini dovrebbero avere gli uni per gli altri. Una lezione che non andrebbe mai dimenticata.


lunedì 26 gennaio 2015

All'alba di San'Anna di Giuseppe Vezzoni



Sabato 24 gennaio alle ore 16 presso la Croce Bianca di Querceta, Giuseppe Vezzoni ha presentato i suoi due libri usciti nel 2014, in occasione del 70° anniversario della stragi nazifasciste in Versilia: All’alba di Sant’Anna e Un prete indifeso in una storia  a metà (per la recensione di questo libro potete consultare un mio precedente post: http://bit.ly/1AhMgV6)
all'incontro hanno partecipato oltre all'autore:

  • Ezio Marcucci, in qualità di moderatore;
  • Prof. Paolo Verona, che ha presentato il libro Un prete indifeso in una storia  a metà, di cui ha curato la seconda riedizione.
  • Don Danilo D'Angiolo, che ha ricordato il ruolo fondamentale di tanti esponenti del clero che nell'atto massimo di carità hanno dato la vita per proteggere le popolazione civili.
  • la sottoscritta, Elisa Bandelloni, che introdotto l'altro libro All’alba di Sant’Anna.
Copertina del libro, Il Margine edizioni.

Quest'incontro si è svolto quasi in concomitanza con la Giornata delle Memoria, la  ricorrenza internazionale che il 27 gennaio di ogni anno commemora le vittime dell'Olocausto.  Lo scopo è mantenere viva la memoria storica, perché come ricorda Paolo Schimdt, presidente dell'Anpi Trentino, nella prefazione del li libro “Un popolo che dimentica le tragedie del proprio passato è destinato a ripeterle”.
All’alba di Sant’Anna, scritto da Giuseppe Vezzoni in collaborazione con Graziella Menato per la casa editrice Il Margine di Trento, ripercorre la breve vita di Don Fiore Menguzzo, sacerdote tesino, medaglia d’oro al merito civile, raccontando la tragica giornata del 12 agosto 1944, quando i soldati tedeschi della 16a SS Panzergrenadier Division del generale Max Simon accerchiarono il paesino di Sant'Anna di Stazzema come rappresaglia contro i partigiani.
Quel giorno anche il giovane parroco don Fiore Menguzzo (28 anni) fu ucciso lungo una mulattiera da una scarica di colpi di arma da fuoco. Subito dopo fu incendiata anche la canonica, dopo che era stato ucciso anche il padre Antonio, di anni 65, la sorella Teresa (36 anni), la cognata Claudina Sirocchi (28 anni), le nipotine Colombina Graziella Colombini ed Elena Menguzzo, rispettivamente di 13 anni e di un anno e sei mesi.


Quando Giuseppe Vezzoni mi ha chiesto di presentare il suo libro, oltre al fatto di essere naturalmente contenta per questo suo atto di fiducia, mi sono subito chiesta cosa potesse significare oggi per me un libro come All’alba di Sant’Anna. E quando dico per me, intendo dire, in senso più generale, per la mia generazione e quelle successive, nate a cinquant'anni dalla fine dell'ultimo conflitto mondiale.
Le domande che mi frullavano per la testa erano più o meno queste: ha ancora senso parlare oggi della Resistenza, della guerra di liberazione, delle stragi nazifasciste? Ha senso parlare della tragica morte di Don Fiore Menguzzo e della sua famiglia?
La risposta che mi sono data è sì.
I racconti della guerra dei nostri nonni sono sempre più sfumati, storie di un mondo che non esiste più, come i sogni che svaniscono all'alba. Ma anche se per noi gli anni della dittatura fascista e della guerra sembrano lontanissimi, chi li ha vissuti non può dimenticare. E allora il compito di tutti noi è ricordare, ricordare perché certe episodi non accadano mai più.
La tragedia delle Mulina è stata a lungo dimenticata, sepolta tra le pieghe della storia. Proprio per questo il lavoro di Giuseppe Vezzoni, durato ben 23 anni, è ancora più degno di stima, perché non solo restituisce la dignità alle vittime ma perché ristabilisce la verità, la memoria storica.
Senza memoria non c'è coscienza.
Senza memoria non si dispone degli strumenti per interpretare la realtà che ci circonda.
Ricordare per non dimenticare quindi.
C'è chi a ricordare ci riesce meglio, come Giuseppe che ricostruisce, grazie alle testimonianze dirette e alla studio dei documenti, la vicenda della strage che la mattina del 12 agosto, ben prima del più tristemente famoso eccidio di Sant'Anna di Stazzema, colpì il piccolo paese delle Mulina.

Monumento a Mulina di Stazzema in ricordo del sacrificio di Don Fiore Menguzzo

La storia di Don Fiore parte da lontano, più precisamente da Tesino, picciolo paese del Trentino orientale. Antonio Menguzzo, padre di Don Fiore, agi inizi del '900 intraprende il lavoro di arrotino girovago con direzione Toscana. In seguito per l'esigenza di trasformare quel lavoro stagionale in fisso, Antonio matura la decisione di trasferirsi con la famiglia.
Fiore Menguzzo nasce il 16 maggio 1916, viene ordinato sacerdote il 23 giugno 1940 e alla fine del 1941 fu inviato come curato della cappellania di san Rocco a Mulina di Stazzema. Era un parroco bello, buono e ben voluto, come si evince dalle numerose testimonianze. Il 21 aprile 1943 Don Fiore viene inviato come cappellano di guerra in Albania dove rimarrà fino all'armistizio. Venne catturato e deportato in un campo di prigionia tedesco (non si è mai scoperto quale) in seguito allo sbandamento generale che colpì l'esercito italiano dopo l'8 settembre 1943, che fece sì che i militari italiani fossero giudicati traditori del Patto tripartito e deportati. Don Fiore durante la prigionia si ammala gravemente e solo grazie alla madre che si adopera per farlo tornare, e all'intercessione del suo vescovo monsignor Gabriele Vettori, riusce a tornare in Italia nel maggio 1944.
Nel breve periodo tra maggio e agosto 1944, si suppone che Don Fiore mantiene uno stretto rapporto coi partigiani, dai quali riceve dispacci e consegna informazioni. Nasconde, inoltre, le armi lasciate dai disertori. Senza dimenticare il suo importante ruolo di guida spirituale che accoglie e aiuta le popolazioni sfollate. Come tanti religiosi scelse di stare dalla parte dei deboli, delle popolazioni inermi, degli sfollati. Proprio il suo prodigarsi per la popolazione e per la lotta di liberazione lo porterà alla morte quella tragica mattina del 12 agosto 1944.
Ma il libro di Giuseppe Vezzoni non si limita solo a testimoniare la storia del sacerdote Don Fiore Menguzzo e della sua famiglia ma apre una riflessione più ampia sul periodo tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, la Resistenza.
Il lavoro ancora più difficile è stato scrostare quella patina di ipocrisia che circonda la Resistenza. Tornando al concetto di memoria storica: rispettare la storia vuol dire raccontarla nella sua interezza, con le sue luci e le sue ombre. La fine della guerra ha visto la contrapposizione di due schieramenti: da un lato chi ha attribuito tutti meriti della Resistenza ai partigiani comunisti esaltando il loro eroismo e tacendo i lati oscuri, le vendette personali e certe azioni opportunistiche; dall'altra parte la Democrazia Cristiana che ha preferito gettare nell'oblio tante vittime, negando loro la giustizia che meritano.
Nel mezzo ci sta chi come Giuseppe ha cercato e cerca nei suoi libri di ristabilire quale sia la verità.


Le domande senza risposta sono tante: perché i partigiani si spostarono nel Lucese lasciando scoperti i paesi di di Farnocchia e Sant'Anna?
Don Menguzzo è stato tradito da qualcuno che sapeva della sua collaborazione con i partigiani?
E soprattutto perché l'opinione pubblica, le amministrazioni, la classe politica hanno voluto ignorare la vicenda della strage delle Mulina?
Una risposta non c'è.
Resta la figura di un parroco che, come tutta la popolazione civile, diede il suo contributo “non armato” alla lotta di Liberazione, senza il quale la stessa lotta armata partigiana non avrebbe probabilmente  avuto ragione di esistere.
Un esempio di sacrificio in nome di quel bene comune di cui oggi, in tempi di corruzione dilagante e di antipolitica, abbiamo tanto bisogno.
Vorrei concludere con le parole della prefazione di Sandro Schimd:
"Con questo libro Giuseppe Vezzoni non si è limitato alla ricostruzione della storia dimenticata di don Fiore Menguzzo, che, grazie al suo lavoro, ha avuto il riconoscimento della medaglia d'oro. Fa una cosa, se possibile, più importante: ridà a don Fiore la parola. Don Fiore parla della sua storia e di quella suoi familiari come di una lezione che va letta al presente, che deve, entrare nelle coscienze dei giovani per combattere, con le armi della democrazia, per una società più giusta e un mondo migliore."


domenica 4 gennaio 2015

Presentazione "Il Natale di Alfonso. Una storia tutta italiana" di Giuseppe Vezzoni

Ieri sabato 3 gennaio alle ore 16, presso la sede della Croce Bianca di Querceta, si è tenuta la presentazione del libro "Il Natale di Alfonso. Una storia tutta italiana" di Giuseppe Vezzoni. Insieme all'autore hanno preso parte all'incontro Ezio Marcucci e il prof. Paolo Verona, che ha curato la revisione del testo.
Devo ammettere subito con rammarico che i partecipanti erano pochi. Dico con rammarico perché il racconto confezionato da Vezzoni non solo è stilisticamente di valore ma molto attuale, tanto che ha spinto tutti i presenti ad interrogarsi e mettersi in gioco, aprendo un vivace dibattito. Quello che mi auguro è che molti altri possano conoscere ed apprezzare quest'opera, regalandosi un'occasione di riflessione su cosa significhi oggi avere fiducia nel presente in una società che conosce una profonda crisi non solo economica ma anche valoriale.
Siamo all'antivigilia di Natale ma il protagonista, Alfonso, non ha nessuna voglia di festeggiare. Anzi, ha il cuore greve e riesce a stento a nascondere ai suoi familiari il suo turbamento. A due giorni da Natale ha ricevuto una terribile notizia: a causa della crisi l'azienda ha deciso di metterlo in mobilità. Alla paura di perdere il lavoro, l'unica fonte di reddito per la sua famiglia, si aggiunge la preoccupazione per il mutuo della casa. L'istituto bancario, così prodigo quando si era trattato di elargire il prestito, lo ha avvertito che in caso di insolvenza prolungata si andrebbe incontro al pignoramento della proprietà.
Alfonso si sente inutile, senza futuro né prospettive. Come farà a prendersi cura di sua moglie e dei suoi figli? Il tormento che lo assale è tale che arriva perfino a meditare di togliersi la vita.
Ma la notte di Natale è una notte speciale, la notte in cui tutto è possibile. Quando tutto sembra perduto, il miracolo tanto auspicato da Alfonso accadrà. 
Il racconto è dolce-amaro: amaro perché rispecchia la situazione socio-economica attuale, il clima di sfiducia in cui viviamo, ma al tempo stesso si tratta di una storia a lieto fine, come ci si aspetta da un racconto di Natale, che apre uno spiraglio, la necessità di sperare in un futuro migliore.
Come ha sottolineato il prof Verona, si riscontrano alcune analogie con la celebre opera di Dickens dedicata al natale "A Christmas Carol". Certo Alfonso è lontano anni luce dall'avido e ricco signor Scrooge ma come lui, proprio la notte di Natale, guardandosi nel cuore riscopre l'importanza dell'amore e della famiglia, principi di cui la società oggi ha più che mai bisogno. Solo infatti riscoprendo il valore dell'altro, della solidarietà, della comunanza si può far fronte a questa crisi, che non solo impoverisce, ma genera indifferenza e sospetto, mettendo gli uomini l'uno contro l'altro in una guerra di homo homini lupus.
Proprio questo è il messaggio che Vezzoni ha inteso inviare ai suoi lettori: come persone non dimenticate mai l'importanza della famiglia, perché nei momenti di difficoltà sono proprio gli affetti più cari a darci la forza per continuare a lottare; come lavoratori collaborate tra voi rinunciando agli egoismi personali in virtù del bene comune, affinché tutti abbiano di più.
Perché anche in situazioni di estrema solitudine e di scoraggiamento non bisogna mai perdere la speranza nella speranza (cit. Giuseppe Vezzoni), mai abbandonare la convinzione che non si è mai soli e che la vita vale sempre la pena di essere vissuta.