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mercoledì 16 ottobre 2019

Un dolore così dolce di David Nicholls

È l'estate del 1997 e Charlie si trova davanti alla sfida più grande della sua vita, crescere, definire la propria personalità, scegliere che tipo di persona diventare. 
Niente è nitido, anzi tutto appare confuso e vago, come un oggetto nascosto nella nebbia alle prime luci dell'alba. Il futuro è ancora troppo incerto per avere un qualsiasi appeal e il presente troppo tetro per Charlie. Sua madre se ne è andata di casa, e lui è rimasto a vivere con suo padre, che, caduto in depressione, trascorre le sue giornate bevendo e ciondolando davanti alla TV. Anche Charlie ha risentito di quest'abbandono, tanto che i suoi voti sono crollati e, finito il liceo, passa le sue giornate in solitudine leggendo, in balia del senso di impotenza e di sconfitta.
Sarà un pomeriggio come tanti che incontrerà Fran e, spinto dalla voglia di conquistarla, si unirà ad una compagnia teatrale che sta mettendo in scena Giuletta e Romeo. Nonostante la ritrosia iniziale, Charlie si ritroverà catapultato in una nuova esperienza che lo spingerà a mettersi in discussione e rivedere i suoi piani per il futuro.

Ti sembra di avere tanto tempo e poi all'improvviso il tempo si accorcia e dvi scegliere. ma scegliere significa rinunciare. Apri una porta e tutte le altre si chiudono per sempre. Puoi fare quello che vuoi, ti dicono,a parte questo  e quest'altro e quest'altro ancora...

Un dolore così dolce è un romanzo sulle prime volte: il primo amore, che abbaglia come il sole d'estate e lascia accecati, le prime sbronze, la prima volta, le prime responsabilità, le prime decisioni da adulto. Un romanzo pervaso di nostalgia che tuttavia a mio avviso non convince pienamente. La storia, anche se ben raccontata, è già sentita. Un romanzo di formazione a cui manca qualcosa, una scintilla che lo renda qualcosa di più di una lettura piacevole ma non certo indimenticabile.

Indicazioni terapeutiche: per chi ancora fantastica sul primo amore.

Effetti collaterali: Il protagonista racconta la Sua Memorabile Estate , quella della sua prima e mai dimenticata cotta, da un presente, nel quale appare una persona risolta, che è stata capace di fare pace con il proprio passato. Un adulto in grado di guardarsi indietro e di cogliere il significato più grande di quell'acerbo sentimento: la capacità che ha il primo amore di strapparci dall'anonimato, di farci sentire sicuri, invincibili, immortali.
Non dura quasi mai. Ma quella sensazione non scompare, si trasforma in un'indelebile ricordo da custodire, un dolore così dolce da difendere ad ogni costo.

domenica 22 settembre 2019

Persone normali di Sally Rooney


Cos'è la normalità?
Potremmo dunque dire che la normalità è un costrutto sociale che ingloba i comportamenti, le idee e le caratteristiche che risultano adeguate alla vita in società. In altre termini, la normalità di definisce per antitesi, partendo dal concetto di patologico: tutto ciò che, nell'ambito di una comunità, non è ritenuto deviato o sbagliato o pericoloso.


Marianne aveva un furore che per un po' gli è entrato dentro e gli ha fatto credere di essere come lei, di avere la sua stessa innominabile ferita spirituale e che nessuno dei due sarebbe mai riuscito a trovare un posto nel mondo. Ma lui non è mai stato fallato quanto lei. Era lei che lo faceva sentire così.

I due protagonisti di questo romanzo, Connell e Marianne, sono tutto, tranne che ordinari. Da una parte c'è Connell, con la sua naturale tendenza al conformismo, costantemente spinto dal desiderio di essere benvoluto. Una sorta di bisogno primordiale di "essere una brava persona". Come se tutta la sua esistenza dovesse ridursi al mero tentativo di dimenticare le sue origini proletarie, di elevarsi dalla sua classe sociale.
Dall'altra Marianne che, almeno in apparenza, è immune al giudizio altrui. Marianne che sembra galleggiare al di sopra dei commenti, negativi o positivi che siano. Marianne, che nonostante tutto, è animata dalla ferocia di essere amata, di trovare qualcuno che la comprenda e la apprezzi. Eppure tutte le sue scelte sono orientate da una un profondo sentimento di autodistruzione, che la portano a impegnarsi in relazioni degradanti con uomini al limite del sadico.

Ha avuto una vita anomala fin dalla più tenera età, questo lo sa bene. Ma molto è ormai ricoperto dal tempo, allo stesso modo in cui le foglie cadono e coprono un pezzo di terra ,e alla fine ci si confondono. Le cose che le sono successe sono sepolte nella terra del suo corpo. Cerca di essere una brava persona. Ma sotto sotto sa di essere una persona cattiva, corrotta, sbagliata, e tutti i suoi sforzi per essere come si deve, per avere le opinioni giuste, per dire le cose giuste, questi sforzi nascondono solo ciò che è sepolto in lei, la sua parte malvagia.

In questo suo ultimo libro, Sally Rooney si addentra all'interno della relazione di due ragazzi, alla continua ricerca di un equilibrio tra l'essere sé stessi e la necessità di essere accettati dagli altri, sempre al limite tra "sano" e "malato". Connell e Marianne incarnano la quintessenza della nevrosi posto-moderna, la difficoltà di costruire legami veri, di essere autentici, di essere fedeli alla propria natura.
Persone normali gioca tutto sulle mille sfaccettature del concetto di normalità, prendendolo e capovolgendolo, più e più volte. Due persone "non" normali che tipo di rapporto avranno? E soprattutto, esistono relazioni sbagliate che fanno sentire le persone giuste o, al contrario, una relazione "sana" può trasformare due individui fuori dall'ordinario in più conformi alla media?


Indicazioni terapeutiche: per chi crede che la normalità sia un concetto sopravvalutato.

Effetti collaterali: Ciò che l'autrice mi sembra voglia dimostrare è lampante: l'amore accade. Non solo alla gente perbene. Non è una questione di meritocrazia. L'amore è, per sua natura, un sentimento spigoloso e complesso che cambia le persone: Connell e Marianne si conosciuti, riconosciuti, amati. Se non si fossero incontrati sarebbero gli stessi? Evidentemente no.



venerdì 13 settembre 2019

Patria di Fernando Aramburu


Cosa fa di un romanzo un grande romanzo?
La critica letteraria ha provato a dare tante risposte. L'introspezione psicologica dei personaggi. Lo stile narrativo. L'originalità della trama.
Nella mia personale opinione un grande romanzo è quello capace di intrecciare il corso della Storia, i grandi eventi ricordati sui libri scolastici, con le storie, il racconto delle vite delle persone comuni. Come tanti altri autori prima di lui, cito su tutti Elsa Morante, Fernando Arambaru attinge alla vicende storiche del proprio Paese, nello specifico alla lotta armata dell'Eta per l'indipendenza dei Paesi Baschi negli anni 70/80, per raccontare la storia di due famiglie, il cui destino è legato a doppio filo. Da un lato Txato e Bittori, dall'altro Miren e Joxian. Due coppie che si conoscono da sempre. Un'esistenza condivisa fatta di amicizia, gite con i figli , feste paesane, passioni e ideali condivisi. 
Due famiglie il cui legame verrà inesorabilmente reciso da un atto di infinita violenza: il Txato viene assassinato davanti casa, vittima di un attentato dell'ETA. Joxe Mari, il figlio di Miren e Joxian, è uno dei sospettati, in quanto militante nella lotta armata per la liberazione di Euskal Herria, il Paese Basco.

Mi sono resa conto di una cosa. Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quello che le va.

Niente sarà più come prima. E come potrebbe. La morte del Txato spazza via ogni possibilità di futuro, inghiotte ogni verosimile felicità, lasciando la vedova Bittori e i figli, Nerea e Xabier, naufraghi incapaci di andare avanti, vittime due volte, della morte e dell'odio, del fanatismo e della vergogna.
Il merito di Patria è però la capacità di andare oltre, di non soffermarsi sul solo dolore della parte lesa, ma di provare a scavare più a fondo, di indagare come l'estremismo, di qualsiasi genere, schiacci ogni persona, annulli ogni legame, faccia terra bruciata di tutto ciò che non è la Causa. Anche Joxe Mari e i suoi parenti, in maniera diversa ma non meno profonda, cadono vittime dell'ossessione di un ideale a cui è stato sacrificato troppo, di una "guerra" inutile, di una rivoluzione che non ha portato a niente, che ha lasciato sul campo solo delusioni, rancori e morti ammazzati.

Però un uomo può essere una nave. Un uomo può essere una nave con lo scafo d'acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l'acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l'acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all'errore, e quell'acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna, per non fare brutta figura con i compagni. E così l'uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all'altro.

Perché aldilà della semplice divisione tra separatisti e non, questo romanzo riesce a trovare un massimo comune divisore, un elemento che accomuna tutti i personaggi di questo commuovente  e complesso affresco: l'autore ci racconta dell'incapacità di vedere l'altro aldilà dei propri biechi risentimenti, della fede in un'idea che travolge ogni compassione, di un'amicizia che si trasforma in odio. Ma è anche un sublime racconto sul perdono, sulla voglia di non arrendersi al dolore. Uno spaccato dell'animo umano, con tutti si suoi baratri e e le sue più alte vette.  Il talento dell'autore sta proprio qua: nella capacità di concepire una trama nella quale il non detto superi ciò che viene narrato, dove il vuoto tra le righe si faccia denso, diventando capace di emozionare, commuovere, appassionare.


Indicazioni terapeutiche: per chi crede che non esistano solo il bianco e il nero, ma infinite sfumature di grigio.

Effetti collaterali: Non sempre il tempo ricuce ogni ferita. Spesso, anzi, la sofferenza diventa una cara compagna di vita, una silenziosa spettatrice, un'assenza più forte di ogni presenza. Se perdonare è dunque difficile, comprendere è necessario. Perché alla fine cos'è l'esistenza umana se non la ferrea volontà di dare un ordine al caos, di trovare un disegno predeterminato in un casuale susseguirsi di eventi, di trovare un senso alla morte e quindi, di riflesso, alla vita?


mercoledì 13 febbraio 2019

So che un giorno tornerai di Luca Bianchini


Per molti la vita è una retta, un binario che tende all'infinito, una stazione da cui passa un treno soltanto. Per altri invece è un circolo, l'eterno ritornare di situazioni, sentimenti e pentimenti, il perpetuarsi di prove ed errori, di gioie e delusioni, di amori e tradimenti.

Alla fine, ognuno di noi s'innamora di chi ci guarda per un attimo e poi ci sfugge per sempre.
Trieste, fine anni '60. Angela è la ragazza più bella del quartiere, un futuro carico di promesse, divide le sue giornate tra le scorribande con il fratello Riccardo e la venerazione dei suoi numerosi ammiratori. Qualcosa però nell'ingranaggio della sua vita spensierata si inceppa, quando, poco meno che ventenne, rimane incinta di un "jeansinaro" calabrese, Pasquale, che messo alle strette le confessa di essere spostato e la abbandona al suo destino. 
Angela rimasta sola, tradita dal suo "grande" amore, si scoprirà troppo immatura ed egoista per confrontarsi con il suo nuovo ruolo di genitore: fuggirà da Trieste, la sua città natale, per rifugiarsi nella braccia comprensive di un altro uomo, Ferruccio, rifacendosi una vita a Bassano. Manterrà con la figlia un rapporto sporadico, fatto di aspettative disilluse e una conoscenza troppo superficiale, un sentimento troppo inconsistente per essere assimilato all'amore assoluto tra madre e figlia.
Emma sarà allevata dai nonni materni, il club dei Pipan, con a capo il nonno che rimpiange la dominazione austriaca, e viziata dall'affetto degli zii: diventerà una ragazza ribelle e libera, forte come soltanto chi è dovuto crescere senza un appiglio sicuro può essere. Sarà proprio lei a riunire la sua "famiglia" inesistente, perdonando i suoi genitori per la loro assenza e segnando, di fatto, un nuovo inizio per tutti.


"Allora lascia che ti dica l'unica cosa che ho capito: non arrenderti come ho fatto io. Nella vita bisogna stare bene, e c'è un solo modo per farlo: provare tutte le strade."

So che un giorno tornerai è la storia di vite bloccate, incapaci di andare avanti: Emma che ha passato la vita ad elemosinare un po' d'affetto dai suoi genitori. Angela che rimpiange il suo amore giovanile. Ferruccio che aspetta con pazienza che sua moglie lo scelga per restare. Pasquale che è scappato davanti alle responsabilità ma spera di avere una seconda occasione. 
Un libro leggero, che forse pecca a tratti di superficialità, non approfondendo la psicologia dei personaggi e seguendo una trama fino troppo plausibile. Una lettura dei buoni sentimenti, sulla forza del perdono e sulla capacità che ha la vita di rimescolare le carte, regalandoci il tanto sperato lieto fine. Poco plausibile ma di buon auspicio.

Indicazioni terapeutiche: per chi crede nelle seconde possibilità.

Effetti collaterali: Trieste come luogo di frontiera, il multiculturalismo, la difficoltà di crescere e confrontarsi con le proprie origini. Le premesse per una trama piena di spunti c'erano tutte. In realtà la storia si appiattisce dopo le prime venti pagine e, ancora peggio, non ho sentito nessuna empatia né per la protagonista Emma, che ha trasformato il rifiuto dei suoi genitori in un becero anticonformismo fine sé stesso, né tanto meno per sua madre Angela, troppo presa da sé stessa e dalle sue follie amorose, per comprendere il dolore causato dalle sue continue fughe. Due donne cieche, a tratti ottuse, condannate a ripetere i  medesimi errori, perché incapaci di mettersi in discussione, di vedere aldilà dei propri biechi desideri. Troppo vuote per capire la pienezza dell'esistenza e le sue innumerevoli sfumature.



venerdì 21 settembre 2018

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman


Si può palare di alienazione e dolore strappando un sorriso?
Sembra un'impresa possibile ma Gail Honeyman ci riesce, dando vita ad un personaggio capace di entrare in punte di piedi nell'animo di chi legge, a volte indisponendo, altre suscitando tenerezza. Eleanor Oliphant è la protagonista di questo libro, una sorta di favola moderna che ci restituisce un po' di sano ottimismo e, perché no, di fiducia nel mondo.

Se qualcuno ti chiede come stai, si aspetta che tu risponda BENE. Non devi dire che la sera prima ti sei addormentata piangendo perché erano due giorni di fila che non parlavi con un’altra persona. Devi dire: BENE. [...] Ai giorni nostri la solitudine è il nuovo cancro, una cosa vergognosa e imbarazzante, così spaventosa che non si osa nominarla: gli altri non vogliono sentire pronunciare questa parola ad alta voce per timore di esserne contagiati a loro volta, o che ciò possa indurre il destino a infliggere loro il medesimo orrore.

Ma chi è Eleanor Oliphant? È la collega scostante che nessuno vorrebbe, la vicina solitaria che parla con le piante, la tipa stramba da tenere a distanza, che dice sempre la battuta fuori-luogo e non sembra curarsi delle comuni norme della civile convivenza. Una ragazza anonima e asociale, destinata a vivere ai margini delle vite altrui.
Eppure la protagonista di questo romanzo non sembra, almeno in apparenza, risentire dello strano isolamento in cui si è auto-confinata: ha una casa, un lavoro, un tranquillo tran-tran impermeabile al mondo esterno.  A lavoro dal lunedì a venerdì, i lunghi weekend trascorsi chiusa in casa, in compagnia di qualche bottiglia di alcol e cibo scadente take-away. Mai uno sgarro. Un'unica strada dritta da percorrere in completa solitudine.
Eleanor Oliphant non ha bisogno di niente. Sta benissimo.
O forse no?
Forse dietro la facciata di stravagante normalità si nasconde l'orrore di un trauma infantile troppo da grande da elaborare, troppo spaventoso da condividere, qualcosa di così devastante che può soltanto essere sepolto nell'angolo più buio e nascosto del proprio animo.


Io ero Eleanor, la piccola, triste Eleanor Oliphant, con il mio lavoro patetico, la mia vodka e le mie cene da sola, e lo sarei sempre stata. Niente e nessuno – e certamente non quel cantante, che si stava sistemando i capelli durante l’assolo di chitarra di un altro membro della band – avrebbe potuto cambiare le cose. Non c’era speranza, le cose non si potevano riparare. Io non potevo essere riparata. Al passato non si poteva sfuggire, né lo si poteva disfare.

Gail Honeyman costruisce una storia di redenzione, sul potere salvifico dell'amicizia e sulla possibilità di scendere a patti con le proprie ferite. Nessuno si salva da solo, ma ciascuno di noi, se riceve l'aiuto di una mano tesa, può sbocciare, rifiorire, non certo diventando perfetto, ma accettando le proprie imperfezioni.
Eleanor Oliphant sta benissimo è un romanzo costruito con sagacia e intelligenza, in cui l'ironia diventa la chiave per affrontare un passato oscuro e un presente grigio. Anche se non siamo in presenza di un capolavoro non importa perché Eleanor è un personaggio capace di farsi amare, nonostante l'antipatia iniziale e tutte le sue idiosincrasie, e soprattutto in grado di restituirci un po' di sana speranza. E per una volta il lieto fine è la giusta ricompensa.


Indicazioni terapeutiche: per i solitari, i misantropi, i cinici, perché si ricredano e non smettano mai di coltivare la speranza di una felicità inattesa.

Effetti collaterali: Richard Bach affermava che siamo tutti impostori in questo mondo, poiché facciamo tutti finta di essere qualcosa che non siamo. Eleanor Oliphant è diversa: come lei, sono poche le persone che non sono in grado di dissimulare, di adeguarsi con un sorriso forzato. Tanto che a volte la solitudine auto-imposta sembra la scelta migliore, quella che mette al riparo da un gran numero di ferite inutili. In realtà la storia di Eleanor ci dimostra l'esatto contrario: c'è sempre una via, un modo di essere che coniughi la fedeltà a se stessi con la possibilità di amare ed essere riamati.


martedì 28 agosto 2018

L'animale femmina di Emanuela Canepa

Vincitore del Premio Calvino 2017 all'umanità: ho comprato questo libro attratta dalla recensioni positive. Purtroppo la promessa di consegnare una storia che mettesse a nudo le fragilità femminili, in una sorta di educazione sentimentale in cui le prospettive si ribaltano non è stata tuttavia mantenuta. Forse non sono stata io in grado di cogliere il messaggio dell'autrice, ma, in verità, questo romanzo non si è dimostrato all'altezza delle mie aspettative e dopo un'inizio promettente si è perso per strada, non riuscendo a trasmettere il pathos e il coinvolgimento che mi sarei aspettata. 

Sono mesi che mi tormenta ai limiti dello stalking. Ragionare con lei è impossibile. Non vuole la soluzione più efficace sul piano dei diritto. Vuole che qualcuno le restituisca la vita che ha perso. O almeno un responsabile su cui infierire. Un cadavere per placare la rabbia. Tutte cose che io non posso darle.

Rosita è una ragazza fuggita dal sud e da una madre oppressiva, che vive a Padova dove frequenta con scarsi risultati la facoltà di Medicina. La sua vita sembra destinata ad un grigiore perenne: una vita modesta, niente amici né relazioni stabili, nessuno con cui condivider il peso dei propri fallimenti. Un giorno incontra per un caso fortuito un ricco e stimato professionista, l'avvocato Lepore, che rimasto colpito dalla sua situazione le offre il suo aiuto, assumendola part-time nel suo studio.
Nonostante l'apparente atto di disinteressata generosità, l'avvocato Lepore si rivela ben presto tutt'altro che un benefattore:  Rosita scopre velocemente di essere al cospetto di un uomo cinico, imprigionato dalla propria visione del mondo e dal bisogno di catalogare tutte le persone che incontra. In particolar modo, sembra provare una particolare avversione per l'intero genere femminile: come reagirà Rosita alle sue continue provocazioni? Riuscirà, nonostante la sua fragilità emotiva, ad opporsi al soverchiante maschilismo del suo titolare o né rimarrà schiacciata?

A un certo punto ho capito che continuare a sperare era solo una scelta tossica. A partire dai quattordici anni nella mia testa ha cominciato a prendere forma un pensiero spontaneo e ossessivo di cui mi vergognavo a morte, ma che non riuscivo a censurare: “Devo andarmene da questa casa o mi verrà una brutta malattia”. Per molto tempo non ho avuto il coraggio di farlo. Poi mi sono detta che dovevo tentare, e alla fine, non so bene come, ci sono riuscita. Perché sapevo che là dentro sarei morta. E io invece volevo vivere.

Andando avanti nella lettura emergono i veri motivi alla base della misoginia dell'avvocato Lepore: non aggiungo altro per no rivelare troppo della trama ma, a mio avviso, la ricostruzione del passato dell'uomo non basta a giustificare un così gretto atteggiamento. Probabilmente perché non appartengo alla categoria di chi giustifica gli errori del presente in nome delle sofferenze del passato.
D'altra parte non sono neanche riuscita a provare empatia per la protagonista: una ragazza insicura, quasi al limite dell'o sprovveduto, che si lascia coinvolgere in maniera del tutto passiva in torbidi intrighi pur di non perdere quel briciolo di sicurezza che le era stata donata. Nemmeno il twist in the end è riuscito farmi ricredere e risollevare un romanzo che, per la maggior parte del tempo, naviga tra le acque poche profonde della noia.
L'animale femmina ci consegna un quadro fosco dei rapporti tra uomini e donne (ma non solo), dominati dalle menzogne e dall'egoismo, in cui sono proprio le donne ad avere la peggio, vittime delle proprie illusioni, imprigionate in storie a senso unico, in cui donano tutto senza ricevere nulla in cambio. Come se l'amore potesse prescindere dal rispetto di sé. Come se l'amore fosse una stampella. Come se l'amore dovesse colmare l'immenso buco generato dalle proprie insicurezze. 
Ma davvero nel 2018 si può ridurre la complessità delle relazioni umane al ruolo dell'"animale femmina", ossia ricorrendo allo stereotipo della naturale tendenza delle donne a sottomettersi alle pretese maschili?  


Indicazioni terapeutiche: per chi vuole scavare nell'animo umano.

Effetti collaterali: La misoginia non trova giustificazioni, così come il becero femminismo che assolve le donne a prescindere in quanto tali. Su un punto Emanuela Canepa non ha fatto differenze: tutti i personaggi del racconto sono ugualmente colpevoli, vittime e carnefici, costretti a convivere con le proprie cicatrici e con il rimorso del dolore inflitto a chi più amavano.


mercoledì 25 aprile 2018

E tu splendi di Giuseppe Catozzella


Arigliana, un paese inventato incastonato tra le colline lucane, è il teatro di una storia in cui si intrecciano l'innocenza del protagonista, appena bambino,  e la brutalità di un mondo che fa sconti a nessuno.
Pietro, dopo essere stato bocciato a scuola, viene mandato dal padre a trascorre l'estate, assieme alla sorella Nina, a casa dei nonni. Pietro si sente solo: la mamma è "andata avanti",  ad aspettarli in un posto migliore. Ma a lui non importa, continua a parlarle e a chiederle consiglio ugualmente, anche se ogni volta che lo fa avverte una morsa alla pancia. La nostalgia che lo assale in alcuni momenti è talmente forte che assume le sembianze di un cane che gli lacera la carne. Un dolore sì forte ma che nel tempo è diventato così familiare che Pietro gli ha dato un nome: Canetto.

Certe volte mi prendeva tutto un desiderio di essere di più di me, mi sentivo così piccolo e così grande insieme che sarei voluto scoppiare, e quella era una di quelle volte.

La vacanza al paese dei nonni materni sarebbe dovuta essere come una boccata d'aria fresca, il ritorno ad una tranquillità perduta, ma non andrà così. Il lento tran-tran del piccolo paese di case di pietra è destinato infatti ad essere travolto per sempre: ad Arigliana arrivano gli stranieri. La comparsa sulla scena di un gruppo di immigrati verrà accolta con astio dagli abitanti che, chiusi nella loro diffidenza, non sembrano, almeno in un primo momento, disposti ad accettare di buon grado i nuovi venuti.
Si sa, le novità spaventano, perché non è possibile controllare ciò che non si conosce.
Ma come sempre accade, ogni cambiamento, pur piccolo che possa essere, è destinato ad innescare un'imprevedibile catena di eventi. Saranno proprio i nuovi arrivati infatti a dare il via a un tentativo di rivalsa, riattizzando una voglia di lottare che sembrava sopita per sempre, tornando a far vibrare la speranza di un Sud, stanco e rassegnato, in cui si mescolano sogni e disillusioni. Tutto è destinato a trasformarsi o si tratta soltanto di un miraggio?

Poi si è girato verso il quadretto appeso in cucina, e mi ha chiesto di leggere quello che c'era scritto. Io non avevo voglia, ma nonno ha insistito. Così ho letto. «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia,» ho detto.

Giuseppe Catozzella, dopo il successo del romanzo Non dirmi che hai paura, torna ad affrontare uno dei temi più attuali e dibattuti dei nostri tempi, quello dell'immigrazione. Ma non solo. Questo libro non fa riflettere soltanto su tematiche come l'integrazione, la paura del diverso, il razzismo; l'autore sceglie infatti volutamente di ambientare il suo racconto in un paese del profondo Sud Italia, dove neanche Cristo è mai arrivato. Un luogo fuori dal tempo, che incarna tuttavia una certa mentalità italiana, quella rassegnata all'inefficienza, all'ingiustizia, al malaffare. Chi ci vive è condannato ad un'esistenza vissuta all'ombra di uno spettro, quello della mafia, che spegne ogni iniziativa, soffocando qualsiasi seme di speranza o volontà di cambiamento.

Io i miei nonni li odiavo, perché ai miei nonni mancava l'unica cosa che fa di un uomo un uomo: il coraggio.

Eppure un barlume di speranza è possibile. Nonostante la xenofobia, l'ingiustizia, la rabbia, sembra voler dire l'autore, si può scegliere: scegliere di non arrendersi, di non perdere la voglia di lottare, di vivere, di splendere. Catozzella sceglie di raccontare e raccontarsi attraverso gli occhi del protagonista, uno sguardo carico di fragilità, capace tuttavia di cogliere le spietate contraddizioni della nostra società, in cui imperversa una guerra tra poveri, mentre chi fomenta l'odio e l'intolleranza si arricchisce in silenzio. Perché le cose che salvano nella vita sono salate: le lacrime, il sudore, il mare. 

Indicazioni terapeutiche: per chi lotta contro il pregiudizio per essere migliore, per chi vede nel diverso un'opportunità, per chi non si rassegna alla prevaricazione.

Effetti collaterali: La grande assente d questa storia è la mamma di Pietro. È lei che consegna al figlio il messaggio che racchiude la lezione profonda di questo romanzo. Mai abbandonarsi alla paura. Mai rinunciare. mai chiudersi in sé stessi. Anche se il mondo è un luogo spaventoso, senza pietà, crudele.  Anche se il nostro unico desiderio è chiudere tutto il male fuori.“E TU SPLENDI.”
E' questo il testamento spirituale che la mamma consegna al figlio, citando - come spiega lo stesso Catozzella -la trascrizione sbagliata di uno stralcio dalle “Lettere luterane” di Pier Paolo Pasolini: “Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”


venerdì 16 marzo 2018

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout



New York. Una camera di ospedale dalla cui finestra si coglie lo spettacolo della vetta scintillante del Chrysler. Dentro due donne che non si vedono da tanto tempo. Una è ricoverata a seguito delle complicanze di un intervento chirurgico, l'altra la assiste.
Nell'arco di pochi giorni, cinque per l'esattezza, parleranno come non hanno fatto mai e come non faranno più. Le due donne non sono persone qualunque, ma sono legate dal legame più ancestrale e contraddittorio che possa esistere: sono madre e figlia.


E quella sera, nella stanza dell'ospedale, mia madre era la madre che avevo sempre avuto, per quanto diversa potesse sembrare con quella voce quieta, inderogabile, e la faccia più tenera del solito.

La voce narrante appartiene alla figlia, ricoverata a causa di una misteriosa infezione, che, con suo grande stupore, vede apparire al suo capezzale la madre che non vede da molto tempo.
"Ciao Bestiolina". Due semplici parole capaci di spazzare via l'assenza di anni.
L'asettica stanza dell'ospedale prenderà vita popolandosi di figure che arrivano dalla provincia dell'Illinois: alla protagonista non resterà che ascoltare dalla voce calma e rassicurante di sua madre, così diversa da come la ricordava,  il racconto delle disavventure dei suoi ex concittadini, persone che credeva di aver dimenticato, perché tornino a galla i dolorosi ricordi della sua infanzia. La miseria, gli abusi, il senso di inferiorità.
Il racconto diventa allora un patto di tregua, un modo per riannodare un filo spezzato, un legame sepolto dalle incomprensioni e dalla lontananza.
Ma come si parla alla propria madre quando il silenzio ha ricoperto anni di sofferenza e povertà, quando la tua vita è piena di non detti, quando la persona che avrebbe dovuto proteggerti è quella che ti ha ferito maggiormente?
Il passato è un fardello è troppo pesante. Eppure sua madre è lì accanto a lei, nel momento in cui ne ha più bisogno, senza allontanarsi né dormire mai.


Mi meraviglia come riusciamo a trovare modi per sentirci superiori a un'altra persona, o a un gruppo di persone. Succede dappertutto, di continuo. Comunque lo si chiami, a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare

Mi chiamo Lucy Barton è un romanzo breve, quasi asciutto, mai banale però . Solleva al contrario numerosi riflessioni sull'importanza della famiglia di origine, delle radici, di certi vuoti che non si placano mai.
Il dolore dei figli dura per sempre. Questo sembra essere il messaggio che Elizabeth Strout ci consegna.
L'amore tra una madre e i suoi figli è grande, grandissimo, immenso, ma anche imperfetto. Quando la tua vita è piena di verità taciute,  perdonare chi  al tempo stesso è sia la fonte del tuo dolore e delle tue insicurezze sia una persona che non puoi fare a meno di amare diventa un'impresa destabilizzante. Tuttavia fare pace con questa amara consapevolezza, accettare cioè l'idea che le persone non siano come noi le avremmo volute è un primo doloroso passo verso una vita serena e piena.



Indicazioni terapeutiche: per chi ha fatto pace con i fantasmi del proprio passato e ha deciso di guardare avanti.

Effetti collaterali: Come si conquista  la felicità se non ci è stato insegnato l'amore?
Attraverso il racconto di sé stessi e su sé stessi.
La protagonista di questo romanzo persegue la ricerca  del suo equilibrio per mezzo della passione per la scrittura. Perché come dice la Strout ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi. Tanto ne avete una sola.


martedì 12 dicembre 2017

Quando tutto inizia di Fabio Volo

L'ultimo libro di Fabio Volo è stato un regalo, diversamente non lo avrei comprato perché, sebbene abbia letto molti dei suoi libri, ultimamente ho come l'impressione che abbia poco da dire.
Quando tutto inizia ha confermato questa mia idea. Per carità, scorre bene, lo stile strizza l'occhio al lettore (o meglio alla lettrice ☺) tra una frase da bacio perugina e una scena pseudo-romantica, ma non esce dal seminato, va troppo sul sicuro e per questo delude.

Negli occhi delle persone che amiamo e che dicono di amarci, spesso col tempo ci si vede più piccoli e meno attraenti. Quando passi anni insieme a una persona finisci per vederne ogni parte, anche quella più buia. Negli occhi di uno sconosciuto, invece, hai ancora la possibilità di disegnarti e raccontarti per come ti piacerebbe essere.

Silvia e Gabriele si incontrano in un giorno di primavera come tanti, davanti a un gelato. Un gioco di sguardi, poche battute, sorrisi spontanei, quanto basta per aver voglia di rivedersi. Il secondo incontro in una libreria è sufficiente perché un piccolo seme metta radici. Da lì in poi è un crescendo: scoppia la necessità di vedersi, toccarsi, viversi. Ma Silvia è sposata.
Fare l'amore nella vasca da bagno, coccolarsi nudi tra le lenzuola sfatte, confidarsi davanti ad un calice di vino con sulle labbra ancora il sapore dell'altro diventano allora una via di fuga, una parentesi dal mondo per tornare ad essere sé stessi.
Ma si può davvero mettere in pausa la propria vita? Si deve scegliere tra passione e famiglia, tra tranquillità e desiderio o è giusto pretendere il pacchetto completo?
Mentre in Gabriele, allergico da sempre ai legami, si fa strada la voglia di condividere qualcosa di più che qualche ora furtiva, Silvia è vittima dei sensi di colpa.

Le nostre felicità separate erano più piccole, più risicate, non sarebbero mai potute essere come la nostra felicità insieme.

Fabio Volo ha un talento speciale: sa parlare al cuore delle donne. Sa cosa vogliono, sa cosa sognano ma soprattutto sa cosa vogliono sentirsi dire. Ma questa volta non è bastato.
Lo scrittore bresciano manca di coraggio e si affida a temi a lui cari ma così scade nella dilagante banalità . Anche in questa storia ricorre infatti allo stereotipo del maschio alfa brillante ma inaffidabile, il prototipo dell'uomo sfuggente che ogni donna ha sognato di far innamorare e che, contro ogni pronostico, cade esso stesso vittima di quell'imprevedibile sentimento che fa rima con cuore.
Quello che ne emerge è un quadro di una mediocrità spaventosa: da un lato quarantenni in carriera che si accontentano di relazioni usa e getta, dall'altra donne che tradiscono per noia ma poi si pentono, temendo il giudizio della società. Ma siamo sicuri che le donne 2.0 stiano ancora lì ad aspettare il cavaliere sul destriero bianco che le salvi dalla loro prigione dorata?

Indicazioni terapeutiche: per chi non è mai stato tradito.

Effetti collaterali: Quando tutto inizia non fa tanto riferimento alla storia clandestina tra i due protagonisti ma al percorso di crescita di Gabriele, che a partire dal dolore e dall'abbandono sarà capace di ricostruirsi, aprendosi ad un nuovo modo di amare. Perché alla fine la vita è una somma di tanti inizi, come una lunga strada che non sai mai dove ti condurrà.


venerdì 20 ottobre 2017

L'amore addosso di Sara Rattaro


Una donna soccorre un uomo che ha avuto un malore sulla spiaggia e lo segue all'ospedale, dove per uno strano scherzo del destino è stato ricoverato anche suo marito, vittima di un incidente mentre era in compagnia dell'amante.
La realtà celata dietro il velo delle apparenze è ben diversa: l'uomo con cui Giulia, la protagonista, si trovava non è sconosciuto ma in realtà è il suo amante. Il caso beffardo l'ha presa per mano fino a condurla lì, al capezzale dei soli due uomini che abbia mai amato. Da una parte c'è Emanuele, suo marito, che l'ha salvata da una madre opprimente, che l'ha presa per mano e l'ha amata nonostante le sue ritrosie. Dall'altra Federico, il suo amante, l'uomo per cui è pronta a rischiare tutto, a lasciarsi ogni segreto e rimpianto alle spalle.

Ma soprattutto aveva stretto una parte di me con così tanta forza che se l'era portata via quando se n'era andato. Per questo ero finita lì, perché in vita mia non riuscivo mai a tornare indietro.

Tra le corsie dell'ospedale si consuma il dramma della protagonista femminile di questo romanzo che, schiacciata dal dolore, prova a ripercorre la sua storia, nel vano tentativo di tirare le fila di un'esistenza che pare sfilacciarsi, sciogliendosi come un gelato al sole.
Giulia che è moglie, figlia, amante. Giulia che lavora, che ride, che ama. Giulia che nasconde un terribile segreto, una cicatrice attorno alla quale ha costruito la sua vita, una bella vita, almeno in apparenza.
Ma la felicità non assomiglia quasi mai ad una lista della spesa. Per quanto si voglia o si possa lottare, ci sono vuoti che non riusciamo a colmare, assenza che bruciano più di qualsiasi presenza.

Non importa quale sia la luce che ci illumina. Importa che ci sia qualcuno disposto a guardarci.
L'amore addosso rimanda al senso di soffocamento che affligge Giulia, il suo essere fin troppo avvolta, prigioniera dei tanti ruoli che si è lasciata cucire addosso suo malgrado, incapace di lottare, di dire no. È il prototipo della brava ragazza che si sente sempre obbligata a fare ciò che gli altri si aspettano da lei.
Ecco che il tradimento diventa allora una fuga, un modo per riaffermare sé stessa, e soprattutto un modo per prendersi una rivincita, non tanto nei confronti di suo marito, ma di sua madre. L'intero romanzo infatti, più che indagare i sentimenti scaturiti dalle relazioni extraconiugali, si concentra sul tema della maternità, perché se ci sono tanti modi di essere madre, ce ne sono altrettanti per non esserlo.


Cos’è la felicità? Avere tanti soldi, figli perfetti, vivere in un paradiso e avere il lavoro dei propri sogni? E se, per caso, capitasse che i nostri figli fossero semplicemente come tanti altri, il nostro lavoro si limitasse a non dispiacerci e al posto del paradiso abitassimo in un luogo comodo? La verità è che la felicità spesso assomiglia molto al famoso bicchiere pieno a metà.

Sara Rattaro costruisce un'opera che parte con delle buone premesse, ma si perde strada facendo.  Benché infatti in apertura le tematiche trattate facessero ben sperare, la storia invece di crescere naufraga verso l'inverosmiglianza. Il finale fin troppo frettoloso e lo stile a tratti didascalico depotenziano una trama che sarebbe potuta essere travolgente.
L'amore addosso si limita ad essere una lettura piacevole che non tocca però nessuna corda in profondità. Peccato.


Indicazioni terapeutiche: per chi si è perso ma si è ritrovato; per chi non urla, ma ha imparato a sussurrare sommessamente per non esplodere.

Effetti collaterali: Ci sono tanti tipi di amore, quello tra madre e figlio, tra sorelle, tra amici, tra marito e moglie. Ci sono amori negati, sommersi, dimenticati. Altri che squarciano l'anima e lasciano un marchio indelebile. Altri ancora che curano le ferite, mormorando sommessamente al cuore. Quale di questi è vero? Quale di questi vale la pena vivere? Forse una risposta giusta non esiste.
Come scrive Federico a Giulia: E non ti arrovellare troppo nel trovare spiegazioni: ricordati che esistono domande alle quali si possono dare solo risposte sbagliate.

martedì 26 settembre 2017

Il mare dove non si tocca di Fabio Genovesi

Mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa. Ho letto tutti i libri di Fabio Genovesi e non posso che patteggiare per lui. Per il modo in cui mischia, in maniera sempre nuova e sorprendente, ironia e malinconia. Per come descrive una terra, la sua, che poi è anche la mia, che, se non ne fossi già ammaliato, te ne innamoreresti all'istante. Perché è uno scrittore di successo ma ai salotti milanesi preferisce Forte dei Marmi, non quella glamour però. Quella nuvolosa e deserta, quella che rimane quando i turisti  tornano a casa, con la valigia piena di ricordi delle serate estive e dei mirabolanti fuochi di Sant'Ermete, ma noi restiamo qui. E magari lo incontri sul pontile a parlare di muggini coi pescatori.
Eppure il suo libro precedente, Chi manda le onde, non mi era piaciuto e ve lo avevo confessato nella mia recensione ( leggi qui ) . Mi ero sentita quasi tradita nelle mie aspettative.
E poi il romanzo vinse il Premio Strega Giovani 2015.
E mi sono sentita un po' così. In colpa. Come se non avessi capito tutto quello che c'era da capire. Così il 5 settembre quando è uscito Il mare dove non si tocca sono corsa ad acquistarlo. E per una strana legge del contrappasso, premio o no, questa volta quest'ultimo romanzo mi è entrato sotto pelle subito, come un sapore di buono che ti resta in bocca per ore e nella mente per giorni.

La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto. 


Il mare dove non si tocca è la storia di Fabio, un ragazzino che abita in un paesino di provincia, e della sua strampalata famiglia: il babbo aggiusta-tutto che assomiglia a Little Tony, la nonna che apparecchia sempre anche per il nonno che non c'è più e loro, i nonni o meglio, gli zii.  Aldo, Aramis, Adelmo, Arno, Athos, sui quali grava una terribile maledizione, che li condanna a diventare matti, se non si sposano entro i quaranta anni. Rumorosi e polemici, impetuosi e rissosi, capaci di catturare qualsiasi animale che corra, voli o nuoti,  rappresentano la quintessenza dell'eccentricità. Ma d'altronde in Versilia siamo fatti così: ci piace esaltare la stranezza, sopratutto la stranezza della vecchiaia.

Il Villaggio Mancini è  un po' villaggio del Far West, un po' Macondo, con un chiaro rimando al realismo magico di Marquez. Non c'è contraddizione: come ha affermato lo scrittore fortemarmino durante una sua presentazione "Il realismo magico è l'unico realismo autentico, perché se si pensa che la realtà sia la fila alle poste, le notti insonni, ... Quella non è la realtà. Quella è solo la crosta della realtà."

Perché il pesce tuo non te lo prende nessuno. Nuota strano, nuota a caso, ma eccolo che arriva a te.

Il piccolo Fabio cresce, senza perdere il suo sguardo disincantato, tra gare di presepi e coccinelle, tra gite ai monti col parroco e funghi scintillanti,  tra la solitudine e la paura di non essere abbastanza simile agli altri. Se c'è una lezione che il protagonista impara è che non puoi prepararti. Che la vita ti rovescia addosso comunque tutto, come il lavarone che il mare butta sulla spiaggia. Non importa quanto preghi, quanto ti impegni ad essere bravo, non conta nulla. Tanto vale inseguire quello che ami, che tanto il dolore ti cade addosso lo stesso e non c'è verso di scansarlo.
Il mare dove non si tocca è così. Si ride, ci si commuove, si ride ancora. Si legge la storia di Fabio e vi si riconosce la propria, in una sorta di riflesso cangiante, di piccolo sussulto che riporta ognuno di di noi alla propria infanzia, un luogo abitato di ricordi, mostri e sogni infranti.

...io lì per lì quest'anima non me la sapevo immaginare, poi però l'ho capito che l'anima di ogni persona è proprio questa qua: è la sua storia da raccontare, e più è bella più vola fra le bocche e le orecchie e dura nel tempo. Il tuo corpo finisce in una cassa, ma la tua storia viaggia per il mondo, viaggia per sempre.

Fabio Genovesi ci racconta la sua storia, come è stata ma soprattutto come sarebbe potuta essere, cosicché il lettore non sa mai dove finisce la realtà e dove inizia la finzione narrativa.
Il valore aggiunto di questo romanzo sta proprio nell'universalità del suo significato intrinseco: Fabio cresce a Vittoria Apuana ma il libro sarebbe potuto essere ambientato benissimo in un un paesino in Brasile o in Turchia. Se c'è una cosa che vale per tutti è propria questa: casa tua, il posto dove sei nato, è  diverso e uguale per tutti. Allora raccontare la provincia per Genovesi diventa un modo per dare vita ad un grande racconto epico, su modello della grande narrativa americana, una sorta di "mitologia dei posti". L'autore parla dei posti degli altri parlando del suo e così facendo compie la magia: accende il calore e l'amore che ognuno ha per il suo pezzo di mondo, quello spicchio dell'universo che è solo nostro,  ma che, paradossalmente, condividiamo con il resto dell'umanità.

Indicazioni terapeutiche: per chi è rimasto bambino, per chi ha paura del mare aperto ma si tuffa lo stesso, per chi non perde la speranza.


Effetti collaterali: Non sempre ciò che ci allontana dalla strada comune, che ci fa essere dissimili dalla moltitudine è un male.  Anche la solitudine può essere un valore, se ci spinge fuori dalla nostra rete di sicurezza, dove niente è sicuro o conosciuto, ma dove sono nascoste anche infinite possibilità, come tesori sepolti in fondo al mare. Solo dove non si tocca si nuota davvero.



lunedì 17 luglio 2017

Non volevo morire vergine di Barbara Garlaschelli

A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà. E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.

La prima vita di Barbara finisce il 3 agosto 1981 a Arma di Taggia. Una corsa tra le onde, un tuffo, un rumore di ossa spezzate, un incendio che invade il corpo, immobile, che galleggia a pancia in giù a pelo d'acqua.
Come accade spesso, in un solo attimo ogni cosa è cambiata per sempre. Barbara rimarrà tetraplegica, incatenata per il resto della sua vita ad una sedia a rotelle.
Alzarsi dal letto, correre, preparare un arrosto , indossare i tacchi, salire o scendere le scale, accendersi una sigaretta, farsi un bidet, stringere un mano, ballare, raccogliere dei fiori. L'elenco delle cose che non potrà più fare da sola sembra estendersi fino allo sfinimento.


Nessuno può sapere il dolore che provo, e non perché non tentino di capire ma perché è impossibile. Nemmeno io immaginavo che potesse esistere un dolore così. Del corpo e della mente. Un dolore che si impasta di una paura che non comprendo.

Ma Barbara è molto di più di una lista di "no", è una lottatrice, una "disabilitata" che ha lottato per riguadagnare ogni centimetro di indipendenza, che si è laureata ed è diventata scrittrice, che ha saputo affidarsi all'immaginazione per non rimanere sdraiata in un letto a fissare un soffitto bianco.
Ma non è sufficiente.
Vuole di più. Essere l'amica confidente, la letterata di successo, la donna risoluta e coraggiosa che tutti ammirano non le basta.
Barbara vuole godere e far godere.
Vuole il sesso, la passione, l'eccitazione, l'amore.


Il corpo è il biglietto da visita con cui ci presentiamo al mondo. Nessuno sa cosa si celi dentro di noi, ma tutti vedono siamo, anche se ognuno ci vede a modo suo (bella, brutta, interessante, carina, insignificante, fascinosa). Ci palesiamo al mondo con il nostro corpo.

Non volevo morire vergine è  il racconto autobiografico in cui l'autrice,  Barbara Garlaschelli,  si mette a nudo e ripercorre, con voce intima, il lungo percorso di riscoperta della propria auto-consapevolezza: la voglia di piacere, di vivere a pieno, senza barriere né limitazioni, la propria femminilità e sessualità, lottando contro i tabù che persistono nella nostra società, in cui i disabili sono percepiti come creature asessuate, quasi angeliche, che suscitano affetto e comprensione, senza comprendere che in realtà, hanno “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni”.
Un cammino durato trent'anni costellato di delusioni, frustrazioni, umiliazioni, in cui la scrittrice affronta la sua paura più grande, quella di essere rifiutata, un timore che appartiene a tutti, uomini e donne "normodotati", ma che nei "disabilitati" diventa un terrore assoluto in grado di soverchiare l'intera esistenza.
Con una buona dose di ironia e cinismo, la protagonista narra i suoi primi approcci, i baci impacciati, gli appuntamenti imbarazzanti, le farfalle nello stomaco, in una girandola di figure maschili, a volte attente e premurose, a volte patetiche e meschine, sempre protetta dalla rete di sicurezza costituita da Renzo e Franca, i suoi straordinari genitori.



Niente dovrebbe restare vergine. Nessuna vita, nessuna pagina bianca, nessun pensiero nessun luogo. Forse qualche isola immaginaria per poter far rinascere le nostre emozioni e amarle e riamarle. Niente dovrebbe restare immacolato, neanche la neve, sulla quale le tracce di animali, foglie cadute, passi di uomini e donne, raccontano della vita. Niente dovrebbe restare vergine, né il corpo né la mente, che racchiudono in sé la traboccante vitalità di ciò che siamo.
Quella di Barbara Garlaschelli è la testimonianza di una donna libera che  ha vissuto e combattuto, e non deve più dimostrare, sopratutto a sé stessa, di essere forte. Una donna finalmente integra, non più divisa  tra l'accettarsi o il rifiutarsi: Oggi posso e voglio piangere le mie lacrime, la mia fragilità, l’immenso dolore per tutto ciò che ho perso.
Perché, in fondo, la più importante delle conquiste è quella di poter mostrare le proprie insicurezze, senza paura che gli altri le usino come un'arma contro di noi.

Indicazioni terapeutiche: per chi non crede che il dolore renda persone migliori; per chi sa che ognuno di noi è, a suo modo, fragile.

Effetti collaterali: La verginità di cui la protagonista si vuole liberare non è da intendersi ovviamente in senso strettamente "anatomico", ma riflette la sua volontà di  mettersi in gioco, di vivere a pieno, a prescindere dalla propria "corporeità", ogni esperienza, viaggio, delusione, gioia, giornata di sole, viaggio, emozione, sbaglio, successo, fallimento. La voglia di normalità, che poi altro non è che il desiderio imprescindibile di essere accettati e amati.



mercoledì 10 maggio 2017

La più amata di Teresa Ciabatti


Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre.

Sta in queste poche righe l'essenza del romanzo, La più amata, un libro fortemente autobiografico nel quale la scrittrice Teresa ripercorre la sua infanzia, dominata dalla figura del padre, il Professor Ciabatti, primario di chirurgia dell'ospedale di Orbetello.
Ma chi era veramente Lorenzo Ciabatti?
Un luminare, un benefattore come lo ricorda la gente? O un uomo freddo e calcolatore, un massone?
Teresa Ciabatti scava nel suo passato, assemblando i ricordi come pezzi incompleti di un puzzle fino a delineare un quadro familiare atipico: un padre ingombrante amatissimo ma distante, una madre, Francesca Fabiani, fragile e incapace di tenere testa al marito, un fratello gemello, quasi inconsistente.

Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento. 
La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista: la cocca del babbo, la capricciosa bambina che nuota nella piscina della villa hollywoodiana al Pozzarello, la principessa del reparto che si fa viziare dai giovani medici ansiosi di mettersi in mostra. Una piccola diva prepotente per la quale il mondo non è mai abbastanza.
Fino almeno al compimento dei suoi dieci anni: ingrassa, imbruttisce, i genitori si separano, si trasferisce a Roma con la madre. Non è più l'invidiata figlia del Professore, svaniti i sogni di celebrità e gli scenari da film. Svanita anche l'enorme ricchezza dei Ciabatti, come inghiottita da un mostro mitologico.


Mi dispiace, Professore, tua figlia fa quello che vuole lei, non quello che dici tu. L’unica al mondo a non fare quello che dici tu.

Dal presente, una Teresa presuntuosa e sprezzante, madre anaffettiva che delega le cure della figlia alla tata moldava, si interroga sulla sua incapacità di amare, sul suo essere, a quarantaquattro anni, una donna incompiuta e incapace. Di non meritare il successo che ha avuto.
Non sono d'accordo.
La più amata è sicuramente un libro che divide, che fa discutere, che colpisce o delude. Un libro sulla famiglia, sulle crepe che ci lascia,  su come la vita sia una continua altalena tra illusione e disillusione. Un modo di scrivere spietato e aspro, al limite dello spiacevole, che gli è valso la candidatura come finalista al Premio Strega.

I critici l'hanno catalogato come autofiction, termine utilizzato per definire alcuni romanzi a metà appunto fra autobiografia e finzione, fra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e loro palese distorsione romanzesca. 
Il lettore è spiazzato:  non sa dove inizi la realtà e finisca la storia, nel dipanarsi di questo racconto scomodo che travalica il privato, tratteggiando un'Italia corrotta e corruttibile, affascinante e marcia allo stesso tempo.
Se il personaggio di Teresa Ciabatti sia piacevole o no, alla fine poco importa. Perché anche se snob, arrogante, cattiva con gli altri, e soprattutto con sé stessa, è stata capace di dare alla luce un libro coraggioso, capace di sfidare il timore del giudizio altrui senza alcuna remora.


Indicazioni terapeutiche: per chi è inclemente con sé stesso.

Effetti collaterali: in un'intervista l'autrice ha dichiarato: "Scrivere questo romanzo più che colmare vuoti, ha significato il contrario: tornare indietro, cercare colpe, non trovarne, e da lì ripartire."
Forse diventare adulti significa soprattutto questo. Smettere di cercare un colpevole. Perdonare i propri genitori per non essere stati quello di cui avevamo bisogno. Perdonarsi per non essere stati abbastanza.


giovedì 4 maggio 2017

Requiem per un 'ombra di Mario Pistacchio e Laura Toffanello

Cercavo un libro diverso. E Requiem per un'ombra lo è.
Un noir che non parla solo di delitti e indagini, ma che fa riflettere sul senso profondo della vita, un inno alla libertà, pagata tuttavia a caro prezzo, quello della solitudine.

Al centro dell'intreccio narrativo c'è il protagonista, Sal Puglise, un investigatore privato prossimo alla pensione, un uomo a cui la vita ha assestato troppi colpi, un po' Marlowe, un po' detective all'italiana, che tra un pedinamento e un pestaggio, si rifugia nelle quattro chiacchiere con l'amico barista di sempre, un modo come un altro per fuggire l'isolamento e la malinconia sempre in agguato.
Lontani ormai i giorni di gloria, Sal è deciso a ritirarsi, magari in un paradiso ai Caraibi, il miraggio di una pace lontana e agognata. Per farlo ha bisogno però di un ultimo caso. Ed ecco che la sorte gli serve sul piatto d'argento l'occasione giusta: una rapina finita male.
Un gioco da ragazzi, almeno all'apparenza.


"Sai cosa dicono? Dicono che senza essersi mai viste, due persone consanguinee possano riconoscersi perfino in mezzo a una folla." Si era interrotta, nel telefono l’aveva sentita respirare a fondo. "Devi promettermi che non succederà. Non voglio che anche lei si innamori di te."

Mario Pistacchio e Laura Toffanello ci conducono mano nella mano, sulle note struggenti del jazz (del quale, mea culpa, non sono conoscitrice), nella pancia di un libro sulle illusioni e sul desiderio di riscatto che coinvolge e ti segue, anche dopo che l'hai chiuso.
È pur vero che la trama prosegue senza troppi scossoni, e che il personaggio principale ricalca il cliché del detective ruvido e solitario, ma non ho potuto non apprezzare le atmosfere di questo romanzo: una Torino fredda, un universo di individui imprigionati nel proprio senso di sconfitta, un intreccio di storie che denuncia la bassezza e l'egoismo imperanti. Su tutti spicca Sal, con la sua etica vecchio stile, la sua lucidità, la consapevolezza che non sconfina nell'autocommiserazione.
Il finale mi ha colpito. Non so ancora dire se in ben o in male.
Ma se cercate la redenzione questo romanzo non fa per voi.

Indicazioni terapeutiche: per chi ama il jazz, i pappagalli e i vecchi detective stropicciati.

Effetti collaterali: da animalista quale sono, mi è rimasto nel cuore, Orso, l'incrocio cane-lupo recluso al canile, alter ego di Sal, vecchio e spelacchiato, rassegnato ormai ad aspettare la morte.  Un animale in gabbia da una parte, un uomo prigioniero del proprio passato che aspira solo ad una seconda occasione.
Soltanto che talvolta non ci sono seconde chance.

venerdì 10 marzo 2017

Magari domani resto di Lorenzo Marone

Luce Di Notte.
Più che a un personaggio fa pensare ad un'ossimoro vivente.
Ed è così che appare la protagonista dell'ultimo romanzo di Lorenzo Marone. Contraddittoria, idealista, in perenne lotta con un passato che le ha giocato troppo brutti scherzi e un presente avaro di prospettive.
Luce che sembra destinata a collezionare soltanto insuccessi: un lavoro di avvocato insoddisfacente, una madre bigotta che non la capisce, un amore finito. Ma che non ci sta a rassegnarsi, ad uniformarsi, a seguire la corrente.

Mi stanno sulle palle quelli che credono di aver compreso come gira il mondo. Io non so se andare o restare, cosa sia meglio per me, e solo per me, di certo non credo che chi resti, chi tenti di aggiustare le cose, chi si fa il mazzo tutti i giorni per cambiare il proprio piccolo pezzettino di mondo sia meno coraggioso di chi manda tutto all’aria! 

Sarà l'inaspettata amicizia con Kevin, un bambino saggio, unita alla presenza del vicino Vittorio e alle attenzioni del Cane Superiore Alleria a riconciliarla con sé stessa.
Capirà infatti che non serve scappare, che non occorre inseguire chissà quali sogni di gloria, che, talvolta, è tutto nascosto in un gruppo di persone sedute intorno ad un tavolo, che si sono scelte e continuano a farlo giorno dopo giorno.
Come direbbe Kevin non so come dire... qui è come se ci fosse tutto quello che ci deve essere.


Non le chiamerei semplicemente abitudini, ma un modo per rendere il cielo sopra di noi meno imponente, per sentire di avere un posto dove bastano i nostri soliti piccoli gesti quotidiani a far funzionare le cose. Essere abitudinari non è poi così da sfigati. I bambini sono abitudinari. E i cani. Il meglio che c'è in giro. 


Magari domani resto è un libro ironico e malinconico, di una dolcezza inaspettata che ti conquista pagina dopo pagina. Un inno alle famiglie speciali, ai piccoli gesti quotidiani, alle abitudini, alla fiducia in sé stessi. A Napoli.
Oserei dire che questo romanzo è la quintessenza della napoletanità. Quella buona, quella che resiste. Come l'erba tra le crepe dell'asfalto. Quella dei Quartieri Spagnoli, del bucato steso alle finestre, del dialetto che strappa un sorriso.
Quella fatta dalle persone che non si arrendono, che convivono con il male accanto rimanendone immuni.  
Quella dei veri ribelli che hanno imparato a non abbassare mai gli occhi.


Indicazioni terapeutiche: per chi sceglie di andare, per chi sceglie di restare.

Effetti collaterali: Non esiste nessuna ricetta della felicità precostituita: non si può scegliere a priori se sia meglio partire o restare. Non è il luogo dove viviamo che ci definisce in quanto individui. Si tratta di scegliere tra lottare o fuggire, tra impegnarsi o lasciarsi trasportare dalla corrente. La forza la si dimostra affrontando le difficoltà di tutti i giorni, inseguendo un obiettivo e, perché no, talvolta fallendo.
Sempre fedeli a sé stessi, sempre liberi e allegri.
E curiosi. Perché la curiosità non è altro che una forma di coraggio.


lunedì 20 febbraio 2017

Ultima la luce di Gaia Manzini

Puoi vivere tutta pensando di essere un tipo di persona, di avere avuto l'esistenza che avevi desiderato e,  poi, svegliarti un giorno e scoprire che è stato tutto un abbaglio. Un'intera vita ridotta ad un'illusione fugace, come il tremolare della luce sulla superficie dell'acqua.
Ultima la luce racconta il percorso di disincanto del protagonista, Ivano, che alla morte della moglie scopre che il mondo che si era costruito era soltanto un miraggio.

Quello che non aveva mai saputo di lei doveva essere stato il motore della sua devozione, tanto quanto ciò che conosceva. Quale parte di Sofia aveva amato di più? Quella che aveva avuto sotto gli occhi o quella che si sottraeva? La sua natura enigmatica aveva reso enigmatica anche la loro vita insieme. Insolubile.
È davvero possibile rimettere insieme i pezzi?
È pensabile, dopo aver vissuto più di metà della propria vita, trovare un nuovo senso?
Ivano ci riesce. O almeno ci prova. A ricostruirsi a partire da una diversa cognizione di sé, dall'amara constatazione che sì le bugie ci aiutano a convivere con le nostre debolezze, ma ci allontanano anche inevitabilmente dall'unica serenità possibile. Un tentativo che passa necessariamente attraverso la ricostruzione del rapporto con la figlia Anna, ormai diventata una sconosciuta, e, perché no, un nuovo amore.

 Il presente serviva solo come base per proiettarsi di continuo in avanti. 

Gaia Manzini costruisce un romanzo sulle seconde possibilità, sulla necessità di buttarsi come ci si tuffa in piscina, affrontando il dolore bracciata dopo bracciata, con i polmoni che bruciano ma la voglia di continuare ad ogni costo, di non mollare mai.
Un libro basato sull'antitesi tra esterno ed interno: da una parte il mondo che scorre indifferente come al solito, anzi quasi rallentando, come se la nuova consapevolezza di Ivano gli donasse uno sguardo nuovo capace di cogliere dettagli nelle cose che prima gli erano sconosciuti; dall'altra l'autrice è magistralmente capace di rendere la complessità dei dubbi e dei tormenti che lacerano l'animo del protagonista.
Un uomo stanco ma non vinto, deciso a gettarsi tutto alle spalle e guardare solo avanti. Verso la luce.


Indicazioni terapeutiche: per chi sceglie di buttarsi, di ricominciare, di andare avanti.

Effetti collaterali: Benazir Bhutto disse: Una nave in porto è al sicuro ma non è per questo che le navi sono state costruite. Scegliere di non rischiare significa non onorare la possibilità di essere pienamente realizzati che ci è stata donata. Non importa quanto il mare aperto ci atterrisca . È là che dobbiamo andare.


martedì 31 gennaio 2017

Le otto montagne di Paolo Cognetti

Una boccata d'aria fresca.
Questa è stata la prima sensazione che mi hanno suscitato le  prima pagine de Le otto montagne.
Mi è piaciuto subito lo stile, semplice senza essere leggero, intrigante senza aspirare al pomposo, diretto e sincero.
Come la gente dei monti. Di questo parla il libro. È la storia di due amici e una montagna. Così lo definisce lo stesso autore, Paolo Cognetti, che, come uno dei suoi personaggi, si è lasciato la città alle spalle e ha scelto di vivere in una baita sopra Brusson, in Valle d’Aosta.


 Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro è a monte.

La montagna diventa un luogo di elezione, un posto dove ricostruire e ricostruirsi, in fuga da una società in crisi, che ha deluso le aspettative di migliaia di giovani, che li ha lasciati senza futuro, ad annaspare come pesci troppo grossi in uno stagno troppo piccolo.
Il paesaggio non è forma, è sostanza: entra nelle relazioni- ha affermato lo scrittore in una sua recente intervista- C’è bisogno di semplificare per essere felici, di vivere con poco per essere liberi.
La montagna come santuario dove non solo recuperare un rapporto non mediato con la natura e l'essenza delle cose, ma anche spazio in cui riscoprire valori come la condivisione, la solitudine (quella buona), l'uso del corpo, l'amicizia.

In fondo il romanzo non è altro che la storia di una grande amicizia, quella tra Pietro e Bruno, uno nato in città, l'altro in un paesino sperduto, uno seguito da genitori amorevoli, l'altro cresciuto come l'erba di alpeggio, uno desideroso di conoscere posti nuovi, l'altro ancorato alla sua terra.
Due ragazzi che si sono incontrati grazia all'amore per la montagna, una passione che li ha tenuti vicini, anche quando lontani, per il resto delle loro vite.


Mi tornò in mente una certa fragilità che avevo intravisto in lui, certi attimi di smarrimento che subito si affrettava a nascondere. Quando mi sporgevo da una roccia e gli veniva d’istinto di afferrarmi per la cintura dei pantaloni. Quando stavo male sul ghiacciaio e si agitava più lui di me. Mi dissi che forse quest’altro padre l’avevo avuto sempre lì e non me n’ero mai accorto, per quanto era ingombrante il primo, e cominciai a pensare che in futuro avrei dovuto, o potuto, fare un altro tentativo con lui..

L'universo di Cognetti è uno spazio senza fronzoli né sovrastrutture, abitato da amicizie maschili, riflessioni solitarie e legami destinati a non finire mai.
Ma Le otto montagne è molto di più. È un libro sulla ricerca proprio posto nel mondo, un desiderio che parte da lontano, che non può prescindere dalle proprie origini.
Per decidere dove vogliamo andare dobbiamo prima di tutto capire da dove veniamo. Questa è la conclusione a cui Pietro arriva, facendo pace con un padre, a cui ha vissuto accanto, ma che non ha mai conosciuto fino in fondo.
Forse l'ha capito troppo tardi. O forse no. L'importante è aver appreso la lezione.
Prima di imparare ad usare le ali dobbiamo fare pace con le nostre radici.



Indicazioni terapeutiche: per chi quando va in montagna si sente più vicino a sé stesso.

Effetti collaterali: Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. […] E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?
Il mondo si divide in due grandi categorie: chi resta e chi parte. Perché per alcuni il viaggio senza meta è l'unica scelta possibile, l'esplorazione continua, il girovagare spinti dall'urgenza della propria curiosità. Per alcuni l'unica stabilità possibile è l'assenza di ogni stabilità.



lunedì 14 novembre 2016

Le ragazze di Emma Cline

Nelle prime ore del 9 agosto 1969, a Los Angeles, Sharon Tate, promettente attrice e moglie di Roman Polanski incinta di otto mesi, fu uccisa insieme ad altre quattro persone nella sua abitazione, una villa a Beverly Hills, da un gruppo di uomini armati che erano riusciti a entrare in casa sua. Gli assassini erano i seguaci di una setta guidata da Charles Manson, mandante degli omicidi, che fu condannato alla pena di morte, poi commutata in ergastolo.
Parte da qui, da questo massacro che  per la sua efferatezza e la violenza è diventato uno delle pagine più buie della storia americana, Emma Cline per costruire il suo romanzo d'esordio che, appena uscito, è già stato acclamato come uno dei successi di questa stagione,
Evie è una quattordicenne sola e in cerca dell'amore e dell'approvazione che non ha ricevuto dai genitori, quando si imbatte per caso in un gruppo di ragazze di una comune che orbita intorno alla figura di Russell, un capo carismatico dalla voce suadente e gli occhi ipnotici, capace di piegare la volontà altrui ai suoi voleri. 

Far parte di quel gruppo amorfo, convincersi che l'amore poteva venire da ogni direzione. così da non restare delusi se non ne veniva abbastanza dalla direzione sperata.

La protagonista rimarrà colpita da questo mondo senza regole, dalle ragazze del gruppo, libere e selvagge. Da Suzanne, la ragazza che avrebbe sempre voluto essere. Come attirata da una forza magnetica inarrestabile, si unisce al gruppo di Russel. Evie l'ingenua. Evie il bersaglio facile, esposto, ansiosa di concedersi. Evie che desidera ardentemente far parte di qualcosa.

Emma Cline
Inizia così un viaggio in un mondo parallelo, fatto di droghe, di abbracci mollicci, di sorrisi allentati, di falò allucinogeni e violenze travestite da gesti amorevoli. Fino all'epilogo, la violenza che si spoglia felina delle su vesti stracciate. Un orrore alimentato da un odio profondo, consumato quasi distrattamente, come si scarta una caramella appiccicosa.
Una Evie adulta, ormai scevra di qualsiasi di anelito e svuotata di ogni aspettativa, ripercorre i suoi ricordi, interrogandosi su cosa le abbia impedito di imboccare la strada sbagliata. Se, in qualche modo, si sia trattato di una diversa levatura morale o se sia stato solo merito del caso. È stata risparmiata davvero o in realtà non c'è mai stata per lei alcuna possibilità di salvezza, come se fosse stata condannata a rimanere per sempre quella ragazza sola e impacciata che nessuno ha mai amato veramente?

Io gliela invidiavo, quella fiducia, il fatto che qualcuno potesse cucire insieme le parti vuote della tua vita fino a farti sentire che sotto di te c'era una rete, capace di legare ogni giorno al successivo.

La ragazze è un romanzo forte e intenso, malinconico e crudo che si interroga sulle ragioni profonde che animano le persone, su ciò che distingue i buoni dai cattivi. Al centro del racconto non c'è il leader della comunità, ma loro, le ragazze. Helen con i codini e l'aria maliziosa. Donna dai modi sguaiati e la voce rozza. Roos schiva e silenziosa. Un universo di personaggi femminili che si muovono come stralunati pianeti, ansiose di piacere, di vivere aldilà degli schemi, lucciole impazzite intorno ad una luce troppo forte.

La resistenza che opposero aveva una sua folle dignità: nessuna era scappata. fino alla fine, le ragazze erano state più forti di Russell.

E poi c'e Suzanne, con i capelli neri e la sua bellezza selvaggia. Vicina e altezzosa allo stesso tempo. Capace di prendere Evie sotto la sua ala, compagne di un viaggio verso il nulla, così diverse ma così simili. Con la stessa fame che graffia l'anima, quella smania di amore e di carezze che spinge a compiere qualsiasi azione, anche la più brutale.


Indicazioni terapeutiche: per chi almeno una volta nella vita ha desiderato scardinare ogni imposizione, rompere ogni catena, vivere ogni sentimento in maniera assoluta. 

Effetti collaterali: il romanzo parla di un'ossessione, quella di Evie per Suzanne capace di annichilire tutto il resto. Nessuno era mai stato capace di guardarla davvero, perciò da un certo momento in poi era stata lei a definirla. A darle un posto dove valesse la pena vivere, anche se questo significava perdere tutto il resto. Demolire l'individualità, offrirsi in sacrifico come polvere all'universo. Perché a volte sentirsi importante per qualcuno è l'unica cosa che conta.


lunedì 31 ottobre 2016

Breve storia di due amiche per sempre di Francesca Del Rosso




Finché morte non ci separi.
Amiche per sempre. Quante di noi l'hanno detto. Ogni donna si è aggrappata all'idea di un legame destinato a durare per sempre. Ma è davvero possibile?
Un'amicizia può rinascere? Può superare anni di incomprensioni e silenzi, azzerare le distanze e tornare a tirare fuori il meglio di noi?
Se è un vero sentimento sì. 

È proprio lei. Clara in carne e ossa. Lei che mi ha buttato via come un cerino usato. Per un istante immagino di rifarle la stessa domanda di quella sera di tanti anni fa. "Perché non hai risposto alla mia lettera?"
Tessa è una donna in crisi, costretta a fare i conti con il tradimento del marito che ha incrinato una vita apparentemente felice. Dopo anni di lontananza, incontra casualmente la sua ex amica del cuore, Clara, dalla quale si era sentita abbandonata senza motivo. Il primo incontro è destabilizzante: più di venti anni prima la loro amicizia che sembrava totale, incrollabile, era naufragata in silenzio, senza un reale motivo. Un tradimento mai superato, un rimpianto che non ha mai abbandonato Tessa.

Francesca Del Rosso

Malgrado le titubanze iniziali, le due donne riusciranno ad andare oltre la patina dell'apparenza e recuperare l'intesa perduta. Tessa scoprirà che, dietro l'immagine di una donna vincente e sicura di sé, Clara nasconde delle inaspettate fragilità. Finirà così per mettere in discussione la loro eterna competizione, rendendosi conto di essere più forte di quanto pensasse.
Sarà soltanto alla fine di un lungo percorso che le riporterà alle origini, ad una pianta di melograno carica di fiori, simbolo del loro rapporto rinato dalle ceneri, che le due protagoniste capiranno che darsi una seconda possibilità è la scelta migliore.
Francesca Del Rosso torna, dopo il successo di Wondy, con un romanzo che è un inno all'amicizia femminile, mescolando la nostalgia per le occasioni perdute con la fiducia nei veri legami, quelli che resistono al tempo e sono destinati a durare per sempre.
Perché l'amicizia è un viaggio che non finisce mai.


Indicazioni terapeutiche: per chi sa che le vere amiche esistono.


Effetti collaterali: Esistono affinità elettive che non si spengono, che resistono ai matrimoni, ai figli, alle cartelle di Equitalia, alle sconfitte e alle gioie più grandi. Accade. Accade che ti giri e guardando la tua amica e scorgi nei suoi occhi il riflesso della te stessa adolescente, quella parte segreta di te che solo poche persone possono vantare di conoscere.


martedì 16 agosto 2016

Splendi più che puoi di Sara Rattaro




Ogni giorno le cronache ci riportano le notizie di donne uccise barbaramente. Sono numeri che spaventano quelli relativi al femminicidio: dall'inizio del 2016, almeno 58 donne sono state uccise in Italia dal partner o dall'ex fidanzato. L'ultimo caso salito alla ribalta è quello di Vania Vannucchi, morta a seguito delle gravissime ustioni riportate. Il presunto assassino è un collega con cui aveva avuto una relazione, Pasquale Russo, che, dopo averla attirata nel parcheggio dietro l'ex ospedale di Lucca con la scusa di un chiarimento,  l'ha cosparsa di benzina e le ha dato fuoco.
Con il suo ultimo libro, Splendi più che puoi, vincitore del Premio Rapallo Carige 2016, la scrittrice Sara Rattaro sceglie di raccontare la vita di una delle tante donne maltrattate, una di quelle che, per fortuna, si è salvata, il cui nome non comparirà sulla cronaca nera. Per buona sorte, per destino, per coraggio. Chi può dirlo.
La protagonista è Emma, intelligente, istruita, la ragazza della porta accanto, scampata al marito divenuto il suo aguzzino. Un romanzo ispirato ad un storia vera, una storia come tante, come troppe purtroppo, che merita di essere raccontata.


 L'espressione “amore mio” è un ossimoro. Il sentimento più bello e l'aggettivo più possessivo. 

Quando Emma incontra Marco le sembra di aver avuto una seconda possibilità. Archiviata la storia con Tommaso, può tonare a sentirsi amata, apprezzata, desiderata. Può buttarsi a capofitto in questa nuova relazione. Marco è affascinante, sicuro di sé, pieno di attenzioni. Si sposano dopo sei mesi.
Tutto è perfetto.
Col passare del tempo emergono le prime incrinature: le gelosia, gli sbalzi di umore, i litigi, le offese, le botte. Emma non riesce a capacitarsi di questo cambiamento: Marco è suo marito, l'uomo che ha deciso di sposare, non può arrendersi. Non ora che è in arrivo la loro bambina.

Non è mai precipitosa. La discesa inizia sempre con un piccolo passo verso il basso.

Il romanzo è una discesa agli inferi, la cronaca di una vita che diventa incubo, il racconto della dignità di una donna annullata da anni di soprusi, violenze psicologiche e fisiche. Marco che la obbliga a rinunciare al suo lavoro, Marco che le impedisce di vedere i suoi genitori, Marco che la rinchiude in cantina senza cibo né acqua, Marco che le spezza un braccio e le vieta di andare in ospedale a curarsi.

In astronomia la chiamano energia oscura. Ed è la causa primaria dell'espansione accelerata dell'universo. Qui, sul pianeta Terra, la riconosciamo in ogni donna capace di portarsi in salvo
I dettagli cruenti sono appena accennati, nel libro non c'è nessuna descrizione particolareggiata, ma non se ne sente il bisogno. Il dolore, il disagio, l'umiliazione pervadono ogni riga.
Emma impiegherà anni a trovare la forza per fuggire dalla follia di suo marito, per riaccendere quella luce dentro di sé che l'uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla aveva provato a spegnere, per tornare a splendere. Anni che lasceranno in lei cicatrici troppo profonde per guarire del tutto.
Leggendo il libro non ho fatto che chiedermi: perché non è fuggita al primo schiaffo?
Credo sia impossibile dall'esterno riuscire a capire. Possiamo, anzi dobbiamo, provarci. Partire dal presupposto che per imparare a riconoscere l'amore dobbiamo, come prima cosa, imparare ad amarci. Parte tutto da lì. Dalla propria autostima, dalla convinzione di meritare rispetto, di essere degne dell'amore, di non dover essere costrette ad elemosinarlo. A ciò vanno aggiunte la paura del giudizio altrui, la sfiducia nel sistema giudiziario incapace di proteggere le donne maltrattate dai loro aguzzini, la società che stigmatizza le vittime e giustifica i persecutori. Una donna che subisce violenza è, prima di tutto, una donna sola con il suo dolore e la sua vergogna, una donna che grida tutto il suo dolore attraverso il silenzio, i lividi nascosti, lo sguardo spento.


Non mi stancherò mai di ripeterlo, la violenza di genere prima che un problema di tipo sociale è culturale. Servono quindi modelli, leggi, educazione.  Mi colpisce di continuo la leggerezza con cui certi argomenti vengono bollati come inezie, fissazioni da femministe, con quanta superficialità e ignoranza si tollerino comportamenti in evidente conflitto con una concezione del rispetto della donna in senso sostanziale e non solo formale. Non bisogna dimenticare che dai commenti sessisti, dai "lavori da donna", dal "sesso debole", dal "se l'è cercata perché aveva la minigonna", alle morte ammazzate, sfigurate, bruciate vive, massacrate di botte, sgozzate, il passo non è poi così lungo.



Indicazioni terapeutiche: per ogni donna che ha lottato per riprendere in mano la sua vita e farne molto di più, per chi è tornata a splendere, malgrado tutto.

Effetti collaterali: Quello che fa più male è l'indifferenza degli altri. La famiglia che finge di non sapere, i vicini di casa che si girano dall'altra parte, una coltre di indifferenza che inghiotte tutto. Fino a quando la violenza sulle donne sarà percepita come un fatto privato invece che come un problema sociale, questa strage degli innocenti non si fermerà.