lunedì 17 luglio 2017

Non volevo morire vergine di Barbara Garlaschelli

A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà. E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.

La prima vita di Barbara finisce il 3 agosto 1981 a Arma di Taggia. Una corsa tra le onde, un tuffo, un rumore di ossa spezzate, un incendio che invade il corpo, immobile, che galleggia a pancia in giù a pelo d'acqua.
Come accade spesso, in un solo attimo ogni cosa è cambiata per sempre. Barbara rimarrà tetraplegica, incatenata per il resto della sua vita ad una sedia a rotelle.
Alzarsi dal letto, correre, preparare un arrosto , indossare i tacchi, salire o scendere le scale, accendersi una sigaretta, farsi un bidet, stringere un mano, ballare, raccogliere dei fiori. L'elenco delle cose che non potrà più fare da sola sembra estendersi fino allo sfinimento.


Nessuno può sapere il dolore che provo, e non perché non tentino di capire ma perché è impossibile. Nemmeno io immaginavo che potesse esistere un dolore così. Del corpo e della mente. Un dolore che si impasta di una paura che non comprendo.

Ma Barbara è molto di più di una lista di "no", è una lottatrice, una "disabilitata" che ha lottato per riguadagnare ogni centimetro di indipendenza, che si è laureata ed è diventata scrittrice, che ha saputo affidarsi all'immaginazione per non rimanere sdraiata in un letto a fissare un soffitto bianco.
Ma non è sufficiente.
Vuole di più. Essere l'amica confidente, la letterata di successo, la donna risoluta e coraggiosa che tutti ammirano non le basta.
Barbara vuole godere e far godere.
Vuole il sesso, la passione, l'eccitazione, l'amore.


Il corpo è il biglietto da visita con cui ci presentiamo al mondo. Nessuno sa cosa si celi dentro di noi, ma tutti vedono siamo, anche se ognuno ci vede a modo suo (bella, brutta, interessante, carina, insignificante, fascinosa). Ci palesiamo al mondo con il nostro corpo.

Non volevo morire vergine è  il racconto autobiografico in cui l'autrice,  Barbara Garlaschelli,  si mette a nudo e ripercorre, con voce intima, il lungo percorso di riscoperta della propria auto-consapevolezza: la voglia di piacere, di vivere a pieno, senza barriere né limitazioni, la propria femminilità e sessualità, lottando contro i tabù che persistono nella nostra società, in cui i disabili sono percepiti come creature asessuate, quasi angeliche, che suscitano affetto e comprensione, senza comprendere che in realtà, hanno “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni”.
Un cammino durato trent'anni costellato di delusioni, frustrazioni, umiliazioni, in cui la scrittrice affronta la sua paura più grande, quella di essere rifiutata, un timore che appartiene a tutti, uomini e donne "normodotati", ma che nei "disabilitati" diventa un terrore assoluto in grado di soverchiare l'intera esistenza.
Con una buona dose di ironia e cinismo, la protagonista narra i suoi primi approcci, i baci impacciati, gli appuntamenti imbarazzanti, le farfalle nello stomaco, in una girandola di figure maschili, a volte attente e premurose, a volte patetiche e meschine, sempre protetta dalla rete di sicurezza costituita da Renzo e Franca, i suoi straordinari genitori.



Niente dovrebbe restare vergine. Nessuna vita, nessuna pagina bianca, nessun pensiero nessun luogo. Forse qualche isola immaginaria per poter far rinascere le nostre emozioni e amarle e riamarle. Niente dovrebbe restare immacolato, neanche la neve, sulla quale le tracce di animali, foglie cadute, passi di uomini e donne, raccontano della vita. Niente dovrebbe restare vergine, né il corpo né la mente, che racchiudono in sé la traboccante vitalità di ciò che siamo.
Quella di Barbara Garlaschelli è la testimonianza di una donna libera che  ha vissuto e combattuto, e non deve più dimostrare, sopratutto a sé stessa, di essere forte. Una donna finalmente integra, non più divisa  tra l'accettarsi o il rifiutarsi: Oggi posso e voglio piangere le mie lacrime, la mia fragilità, l’immenso dolore per tutto ciò che ho perso.
Perché, in fondo, la più importante delle conquiste è quella di poter mostrare le proprie insicurezze, senza paura che gli altri le usino come un'arma contro di noi.

Indicazioni terapeutiche: per chi non crede che il dolore renda persone migliori; per chi sa che ognuno di noi è, a suo modo, fragile.

Effetti collaterali: La verginità di cui la protagonista si vuole liberare non è da intendersi ovviamente in senso strettamente "anatomico", ma riflette la sua volontà di  mettersi in gioco, di vivere a pieno, a prescindere dalla propria "corporeità", ogni esperienza, viaggio, delusione, gioia, giornata di sole, viaggio, emozione, sbaglio, successo, fallimento. La voglia di normalità, che poi altro non è che il desiderio imprescindibile di essere accettati e amati.



giovedì 13 luglio 2017

L'amante giapponese di Isabel Allende



Alma Belasco, facoltosa ultraottantenne, decide di ritirarsi per trascorrere gli ultimi anni della sua vita a Lark House, una residenza per anziani vicino San Francisco. Qui stringerà amicizia con Irina, giovane infermiera moldava dal passato oscuro, che finirà per innamorarsi del nipote dell'anziana, Seth.
Spinti dalla curiosità di scoprire cosa si nasconde dietro le misteriose fughe amorose di Alma, i due scopriranno che la donna nasconde un segreto, la storia d'amore clandestina con il giardiniere Ichimei Fukuda. Sarà propria Alma a ripercorrere con i due giovani la sua lunga vita, dando vita a un racconto che riserverà non poche rivelazioni.

Tutti nasciamo felici. Lungo la strada la vita si sporca, ma possiamo pulirla. La felicità non è esuberante né chiassosa, come il piacere o l'allegria. È silenziosa, tranquilla, dolce, è uno stato intimo di soddisfazione che inizia dal voler bene a se stessi.

L'amante giapponese è un viaggio nel tempo che ripercorre la straordinaria esistenza della protagonista, la perdita dei genitori, l'infanzia con gli zii benestanti Isaac e Lilian, gli studi, i viaggi, la vita da privilegiata, da chi ha avuto tutto e non ha dovuto rinunciare a niente.
E sopratutto il suo legame con Ichi. Un amore che innerva un'intera esistenza,  che brucia come brace sotto la cenere, senza stancarsi né fiaccarsi.

Ci sono passioni che divampano come incendi fino a quando il destino non le soffoca con una zampata, ma anche in questi casi rimangono braci calde pronte ad ardere nuovamente non appena ritrovano l’ossigeno.

Un sentimento soffocato in nome delle convenzioni, che non solo non si è consumato con gli anni, ma ha trovato nella terza età una nuova dimensione. Questo romanzo è infatti una sorta di inno alla senilità, un periodo della vita in cui fare pace con sé stessi, con i propri difetti ed errori. L'unica fase della vita in cui si può vivere con leggerezza, perché il domani non fa più paura, il domani non esiste più. Esiste solo il presente e il passato, che ritorna in un continuo loop, i cui fantasmi si fanno compagni discreti dell'ultimo viaggio.

Abbiamo detto spesso che amarci è il nostro destino, ci siamo amati nelle vite precedenti e continueremo a incontrarci nelle vite future. O forse non c’è né passato né futuro e tutto accade simultaneamente nelle dimensioni infinite dell’universo. In questo caso, siamo insieme costantemente, per sempre. È meraviglioso essere vivi. Abbiamo ancora diciassette anni, Alma mia.

Isabel Allende è, come prevedibile, una narratrice straordinaria, sebbene in questo romanzo non tocchi le vette dei suoi più grandi successi. La scrittrice cilena ha voluto strafare, mescolando rimandi storici quali la persecuzione degli ebrei, l'attacco a Pearl Harbour e i campi in cui furono confinati i Giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, con altre tematiche come l'Aids, l'omosessualità nascosta, l'aborto, l'eutanasia, fino a scadere nell'inverosimile. Lo stile è scorrevole, anche se, a tratti, banale.
Resta una lettura piacevole, che però non va aldilà della letteratura rosa, lo svago di qualche ora che non lascia significative tracce.

Indicazioni terapeutiche: per chi vuole credere che la vera passione non invecchi mai.

Effetti collateraliHo empatizzato con Alma fin da subito, con il suo anticonformismo e la sua voglia di indipendenza, una donna forte dalla vita avventurosa. Eppure non le ho perdonato il suo unico atto di viltà. L'aver rinunciato al suo grande amore per paura, o meglio per perbenismo. Cinquanta anni fa i matrimoni misti erano malvisti, lo sono ancora oggi. Scegliere Ichimei avrebbe significato perdere tutto, il suo status, i suoi privilegi, la sua rete di sicurezza. Non ce l'ha fatta Alma. Ha preferito sé stessa. Il prezzo del suo egoismo è stato dover vivere un'esistenza a metà, qualche lettera colma di parole consolatorie al posto di una vita vissuta gomito a gomito nelle gioie e nelle difficoltà.