lunedì 18 dicembre 2017

Olive Kitteridge di Elizabeth Strout

Nel profondo Maine c'è una piccola cittadina Crosby, teatro di piccole tragedie quotidiane, dove il dolore del mondo sembra specchiarsi nell'animo dei suoi anonimi cittadini. A tenere le fila delle numerose storie è Olive Kitteridge, insegnate di matematica in pensione, dal carattere brusco e scostante.
Una serie di racconti il cui  fil rouge è proprio Olive, che talvolta compare come personaggio principale, altre volte come attrice secondaria, altre ancora ha un ruolo del tutto marginale. Attorno a lei e alla sua famiglia  ruotano infatti le vicende di conoscenti ed ex-allievi, che gravitano come piccoli satelliti intorno ad una stella capricciosa.
Contrariamente a quello che che si potrebbe pensare, l'unitarietà del racconto non ne risente, anzi, procedendo nella lettura si compone gradualmente un quadro, via via meno fosco, dal quale emerge la sensibilità e la visione del mondo della protagonista.

Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva.

Questa raccolta ha il sapore dolceamaro della vita, di tutte quelle storie che ci sfiorano ma che non conosceremo mai, dei piccoli grandi dolori che ci affliggono, ci prosciugano, ci feriscono senza ucciderci. La scrittura di Elizabeth Strout è calda e intima, capace di tratteggiare la psicologia di ciascun personaggio in modo dettagliato e mai banale. Sembra quasi di passeggiare tra le staccionate bianche dei giardini di Crosby, tra l'emporio e il piccolo ufficio postale, di sentirsi addosso le occhiate indagatrici dei vicini di casa, i loro giudizi severi, che bruciano la pelle come lingue infuocate.

Durante il viaggio continuava a pensare: questa non può essere la mia vita. E in quel momento si rese conto che per la maggior parte della sua esistenza aveva continuato a ripetere tra sé: questa non può essere la mia vita.

La protagonista, Olive,  di primo impatto non è certamente un personaggio amabile, ma indimenticabile sì. Robusta, goffa, ruvida al limite dello sgarbato, burbera e solitaria. All'inizio è difficile entrare in empatia con lei, capire le ragioni per cui è restata accanto al marito Henry, che sembra a stento sopportare, o il figlio Christopher, per cui è poco più che un'estranea. Ma andando avanti nella lettura, ci accorgiamo che dietro l'arrogante freddezza di Olive si cela una fragilità inattesa, una sensibilità inaspettata, che ha fatto sì che, suo malgrado, sia rimasta nel cuore di molti suoi vecchi alunni. Una figura ingombrante che che non fa sconti e con cui tutti, prima o poi, si sono dovuti confrontare.
Sarà lei a compiere il percorso di crescita maggiore, negato invece al marito Henry (simbolo della dolcezza e dell'amore gentile), riconoscendo i propri errori e le proprie debolezze, senza però voler ambire a diventare una persona migliore. Una sorta di crudele contrappasso per cui la possibilità di redenzione viene donata a chi meno sembra meritarla.

E se il piatto di Olive era stato pieno della bontà di Harry e lei lo aveva trovato gravoso, limitandosi a mangiucchiare qualche briciola alla volta, era perché non sapeva quello che tutti dovrebbero sapere: che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l'altro.

Olive Kitteridge è un libro vero, che non abbellisce la realtà, anzi ce la mostra in tutte le sue sfaccettature, conducendoci per mano tra le pieghe più oscure dell'animo umano. Un'opera intrisa di malinconia che ci mostra in completa trasparenza le dinamiche sociali della piccola provincia americana, attraverso gli occhi disincantati, ma forse per questo più acuti, di una straordinaria osservatrice.

Indicazioni terapeutiche: per chi si guarda indietro col cuore colmo di nostalgia e rimpianti.

Effetti collaterali: Olive non è che una vittima del stesso suo isolamento, ma ciononostante determinata ad andare avanti senza mai mostrare nessuna incrinatura.  Chiusa nel suo doloroso riserbo e rassegnata ai duri colpi della vita, ha capito che a nulla vale imprecare e prendersela col destino. Resta in lei, come una gemma nascosta, un bramoso bisogno di un po' di tenerezza, una carezza gentile capace di squarciare il sudario della sua solitudine.
Non è forse quello a cui tutti ambiamo?


giovedì 14 dicembre 2017

L'Arminuta di Donatella Di Pietrantonio



Avere due mamme, senza in realtà averne nessuna. La giovane protagonista dell'ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio scopre all'età dei tredici anni che quella che aveva sempre ritenuto sua madre, quella che l'ha allevata e riempita di attenzioni e cure amorevoli, non è chi dice di essere. Come un pacco postale, l'ha rispedita dalla vera madre biologica, che l'aveva ceduta quando era ancora in fasce.

Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso. 
L'Arminuta, che in dialetto locale significa "la ritornata", torna così nella casa natia, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese. Viene così catapultata in una dimensione parallela dove tutto ciò che aveva conosciuto è ormai un lontano ricordo: dovrà convivere con i fratelli e i genitori che per lei sono dei perfetti estranei, lontana dagli agii e dall'ovattata sicurezza in cui era cresciuta. L'unica alleata sarà la sorella minore Adriana che, seppur in modo primitivo e brusco, cercherà di aiutarla ad adattarsi alla nuove e alienanti dinamiche familiari.

Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.

L'Arminuta è il caso editoriale dell'anno, vincitore della cinquantacinquesima edizione del premio Campiello. Meritatamente aggiungerei. È infatti un libro commuovente e amaro che tratta in maniera delicata di genitori e figli, di ritorni e abbandoni. La scrittura di Donatella Di Pietrantonio è carica di sentimento ma mai ridondante, piena senza essere pesante. Dalle sue parole emerge tutta la crudeltà della vita, senza però giudizio alcuno.
La protagonista, di cui non sapremo mai il nome, racconta in prima persona il trauma di scoprire di essere cresciuta nella menzogna, figlia di silenzi e bugie, vittima degli egoismi degli adulti che, invece di proteggerla, l'hanno abbandonata a sé stessa.

Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.
Lontana da quella che ha sempre considerato casa sua, proverà il freddo, la fame, la solitudine, il disagio di sentirsi diversa e incompresa. Logorata dalle domande, non smetterà mai di sognare di poter tornare tra le braccia della sua "vera" mamma, fino a costruirsi un improbabile castello di spiegazioni pur di giustificarne l'abbandono.
Anche quando l'ultimo barlume di speranza si sarà spento, in lei rimarrà una durezza, simile a quella di una lama d'acciaio, forgiata dalla dolorosa condizione di essere stata rifiutata per ben due volte, che l'accompagnerà per il resto della sua vita. Resterà per sempre incapace di pronunciare la parola "mamma", orfana di due madri. Orfana di sicurezza, di fiducia, di amore. Una ferita incapace di rimarginarsi, un vuoto destinato a non essere mai colmato.

Indicazioni terapeutiche: per chi cerca una storia di abbandoni che tocchi le corde dell'anima.

Effetti collaterali: essere madri significa molto di più che partorire un essere umano. Implica amore, rispetto e sincerità . Il resto è gettare figli nel mondo, condannarli alla precarietà affettiva e alla solitudine. È più facile generare infelicità che il contrario.

martedì 12 dicembre 2017

Quando tutto inizia di Fabio Volo

L'ultimo libro di Fabio Volo è stato un regalo, diversamente non lo avrei comprato perché, sebbene abbia letto molti dei suoi libri, ultimamente ho come l'impressione che abbia poco da dire.
Quando tutto inizia ha confermato questa mia idea. Per carità, scorre bene, lo stile strizza l'occhio al lettore (o meglio alla lettrice ☺) tra una frase da bacio perugina e una scena pseudo-romantica, ma non esce dal seminato, va troppo sul sicuro e per questo delude.

Negli occhi delle persone che amiamo e che dicono di amarci, spesso col tempo ci si vede più piccoli e meno attraenti. Quando passi anni insieme a una persona finisci per vederne ogni parte, anche quella più buia. Negli occhi di uno sconosciuto, invece, hai ancora la possibilità di disegnarti e raccontarti per come ti piacerebbe essere.

Silvia e Gabriele si incontrano in un giorno di primavera come tanti, davanti a un gelato. Un gioco di sguardi, poche battute, sorrisi spontanei, quanto basta per aver voglia di rivedersi. Il secondo incontro in una libreria è sufficiente perché un piccolo seme metta radici. Da lì in poi è un crescendo: scoppia la necessità di vedersi, toccarsi, viversi. Ma Silvia è sposata.
Fare l'amore nella vasca da bagno, coccolarsi nudi tra le lenzuola sfatte, confidarsi davanti ad un calice di vino con sulle labbra ancora il sapore dell'altro diventano allora una via di fuga, una parentesi dal mondo per tornare ad essere sé stessi.
Ma si può davvero mettere in pausa la propria vita? Si deve scegliere tra passione e famiglia, tra tranquillità e desiderio o è giusto pretendere il pacchetto completo?
Mentre in Gabriele, allergico da sempre ai legami, si fa strada la voglia di condividere qualcosa di più che qualche ora furtiva, Silvia è vittima dei sensi di colpa.

Le nostre felicità separate erano più piccole, più risicate, non sarebbero mai potute essere come la nostra felicità insieme.

Fabio Volo ha un talento speciale: sa parlare al cuore delle donne. Sa cosa vogliono, sa cosa sognano ma soprattutto sa cosa vogliono sentirsi dire. Ma questa volta non è bastato.
Lo scrittore bresciano manca di coraggio e si affida a temi a lui cari ma così scade nella dilagante banalità . Anche in questa storia ricorre infatti allo stereotipo del maschio alfa brillante ma inaffidabile, il prototipo dell'uomo sfuggente che ogni donna ha sognato di far innamorare e che, contro ogni pronostico, cade esso stesso vittima di quell'imprevedibile sentimento che fa rima con cuore.
Quello che ne emerge è un quadro di una mediocrità spaventosa: da un lato quarantenni in carriera che si accontentano di relazioni usa e getta, dall'altra donne che tradiscono per noia ma poi si pentono, temendo il giudizio della società. Ma siamo sicuri che le donne 2.0 stiano ancora lì ad aspettare il cavaliere sul destriero bianco che le salvi dalla loro prigione dorata?

Indicazioni terapeutiche: per chi non è mai stato tradito.

Effetti collaterali: Quando tutto inizia non fa tanto riferimento alla storia clandestina tra i due protagonisti ma al percorso di crescita di Gabriele, che a partire dal dolore e dall'abbandono sarà capace di ricostruirsi, aprendosi ad un nuovo modo di amare. Perché alla fine la vita è una somma di tanti inizi, come una lunga strada che non sai mai dove ti condurrà.